23 Novembre, 2024
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È possibile comprendere una madre che uccide?

Comprendere una madre che uccide è sicuramente molto difficile. L’uccisione di un bambino per mano di sua madre è un gesto così violento che è impossibile giustificarlo. Ma come possiamo pensare di prevenire un gesto del genere senza prima capirlo? Magari iniziamo con l’ascoltare. Quando una madre infanticida “parla di quello che è successo in lei, e per causa sua, nella morte di suo figlio, dice qualcosa di ciò che le madri provano e vivono con i propri figli”, senza arrivare a compiere gesti estremi, magari esprimendo comportamenti “distorti”, volti a nascondere pensieri, emozioni o fantasie considerate inaccettabili dalla società. (cit. in Nell’intimo delle madri, Sophie Marinopoulos, Feltrinelli, 2005, pag.32). Spesso, questi comportamenti “distorti” sono il risultato di un meccanismo difensivo, conosciuto in psicoanalisi come spostamento. Poniamo il caso, ad esempio, tratto da una storia intitolata Rovesciare lo zucchero (cit. in D.H.Malan, Psicoterapia in pratica, 1981, Nuova Casa Ed. Cappelli, pag.19). La situazione di partenza di questa storia era l’imbrattamento che la bimba aveva fatto con le feci nella sua cameretta. La madre aveva reagito in modo molto illuminato controllando l’impulso d’ira e pulendo tutto. Apparentemente l’incidente era dimenticato. Ma l’impulso non scaricato cerca comunque espressione ed accadde che, quando la madre si trovò di fronte ad un’altra situazione nella quale la bambina aveva rovesciato lo zucchero, combinando un pasticcio, le sue difese furono colte di sorpresa e fu sopraffatta dalla rabbia. Qui lo spostamento è da una situazione all’altra, mentre la persona alla quale sono diretti i sentimenti è la stessa. E’ una forma di simbolizzazione, in cui lo zucchero “stava al posto” delle feci. Questo è anche un esempio di quello che Freud chiama ritorno del rimosso.

Per la madre di Lecco, accusata di triplice omicidio aggravato da vincoli di parentela, apparentemente la separazione dal marito era un dolore superato, come pure la morte del primogenito nato prematuro, diversi anni prima. Ma fino a che punto una donna può riuscire ad evitare il dolore senza essere sopraffatta dalla propria ira, l’ira per essere stata respinta. Questa storia definita “incredibile” dai media, trova una sua memoria atavica nella storia infanticida di Medea, la tragedia di Euripide, che, in modo “incredibile” ha affascinato da sempre scrittori e artisti, tanto che la lista dei rifacimenti e delle riscritture sarebbe lunghissima, come la Lunga notte di Medea (tragedia teatrale di Corrado Alvaro del ’49), il romanzo della scrittrice tedesca Christia Wolf uscito nel 1996, Medea. Voci, o ancora il film Medea di Pier Paolo Pasolini, del 1969 e l’elenco potrebbe continuare oltre.

Attraverso questa figura possiamo accedere alla dimensione simbolica del “perché” l’essere umano possa mettere in atto comportamenti estremi, risvegliando in tutti noi qualcosa di molto atavico, già raccontato nell’arte, nelle favole, nei miti, ecc., fin dall’antichità. Medea uccide i due figlioletti, Memero e Fere, avuti con Giasone, dopo che questi s’innamora di un’altra donna, Glauce, figlia del re Creonte, e ripudia Medea. La maga Medea ha avuto un ruolo fondamentale nel far sì che Giasone, dieci anni prima, s’impossessasse del “vello d’oro”, al fine di riconquistare il trono usurpato dallo zio. Per far questo Medea arriva a tradire la lealtà del padre, uccide il fratello, ancora fanciullo, gettandone i pezzi in mare, per evitare di essere raggiunta dal padre, offre le sue arti magiche a patto che Giasone, di cui si innamora appena lo vede, la sposi e la conduca in Grecia con sé.

Quindi, a seguito del grande dolore provocato dalla separazione, dall’essere abbandonata per un’altra donna, Medea decide di uccidere i due figlioletti.

“Sono sola. Non mi aiuta nessuno. Non ce la facevo più”. Queste, le prime parole che Eldira Dobrushi ha rivolto agli agenti di polizia dopo aver accoltellato le tre figlie e tentato il suicidio. Nessuno sospettava la sua sofferenza, neanche dopo la separazione, neanche dopo che il marito aveva deciso di rifarsi una vita con una donna molto più giovane di lui. Aveva già superato la morte del primo bambino nato prematuro. Mai una parola di sconforto, di disperazione.

Le insegnanti dicono di lei: “era una persona che teneva tanto all’educazione delle figlie. Era presente e attenta, era una persona splendida”. Il parroco la descrive come “una persona ammirevole e forte”.

Come Medea, Eldira esprime una determinazione della propria volontà fino all’ossessione, fa sembrare a tutti che lei era e doveva rimanere una persona forte. Nonostante le difficoltà, doveva continuare ad incarnare il mito della “buona madre”, condiviso dalla società: aveva seguito il marito in Italia, lasciando l’Albania, le sue origini, ricominciando una nuova vita in una terra sconosciuta e allevando con devozione le tre figlie.

Da un passo tratto nella Medea di Pasolini si narra che:

Medea cambia nell’istante in cui vede Giasone, innamorandosene perdutamente. Purtroppo non è un incontro positivo: quello che Medea registra e patisce con drammatico disorientamento è piuttosto la perdita della sua identità originaria…Poi accade che la perdita dell’antica identità si compensa nell’acquisto dell’amore…Medea si perde come donna antica ma si ritrova nell’amore per Giasone…Per amore di lui tradisce i suoi, ruba il vello, uccide il fratello…si lascia portare lontano dalla terra che è sua per arrivare ad un’altra che le è nuova e ostile, si lascia spogliare dei suoi abiti sacerdotali e regali e rivestire di vesti greche.”.

La storia di Eldira, come quella di altre donne, simboleggia, nei suoi eccessi, la solitudine delle madri. Quando una donna si ritrova a dover rinunciare a diversi parti della propria identità in nome della famiglia, la società non si domanda se questa condizione potrebbe turbarla o come reagirebbe se la famiglia, a un certo punto, anche nella sua illusione, non dovesse più funzionare.

Ancora oggi, in Italia, metà delle donne che lavorano sono costrette a barattare la loro professione con il desiderio di maternità. Nella migliore delle ipotesi viene concesso loro un part-time, ma anche questo capita raramente. E’ naturale che la donna rinunci a se stessa, che soffra: un uomo non ne sarebbe capace.

Come nell’antichità il proletario, privato dei suoi beni, era colui che trovava la propria ricchezza nei figli (da proles, figli), così spesso la donna moderna, spogliata della sua identità, trova la sua forza nei figli. Con questo non voglio dire che i figli sono solo un ripiego per la donna o che non dovrebbero costituire un punto di forza per lei, ma non possono essere la sua unica forza. Quando Eldira ripeteva a tutti: “le mie figlie sono tutta la mia forza”, in realtà stava lanciando un grido d’aiuto, ma lo faceva in modo “distorto”, non ammettendo un coinvolgimento emotivo per il dolore connesso alla perdita.

Eldira aveva bisogno, oltre che del corpo delle figlie, del corpo sociale, madre delle madri. Aveva bisogno di essere portata. Aveva bisogno che intervenisse la “nostra preoccupazione primaria”, capace di sostenerla, guidarla, rassicurarla. Invece è stata lasciata sola ad interrogarsi sulla nostra capacità di accettarla in quanto donna e madre.

Agli occhi della società Eldira ha firmato la separazione consensuale, senza farne un dramma. Ma forse questa finta serenità poteva mascherare, in realtà, una difesa contro il proprio dolore, un modo celato, ma socialmente accettabile, per dire al marito “tanto non ti desideravo più”, oppure “ora anche tu sai cosa significa essere respinti”. Quest’atteggiamento ricorda un po’ lo stesso meccanismo difensivo messo in moto dalla volpe nella storia L’uva acerba: una volpe affamata cercava di raggiungere dei grappoli d’uva che aveva visto pendere da un pergolato, ma erano troppo in alto. Così se ne andò (serenamente) dicendo: “Tanto erano ancora acerbi”. Questo tipo di difesa implica non solo l’evitamento del dolore ma anche l’espressione d’ira, e questo è chiaro se si fa caso al fatto che l’uva delle favole è stata svalutata e deprezzata, come Eldira avrebbe svalutato e deprezzato il marito. Certo l’uva non si offende a chiamarla acerba, quindi, in questa situazione, l’espressione dell’ira è meramente interna. Ma se la svalutazione può essere espressa alla persona che ha pronunciato il rifiuto, allora sì che può essere per lei dolorosa.

Anche Medea, nella tragedia di Euripide, non esprime mai direttamente la propria rabbia e il proprio odio nei confronti di Giasone, che l’ha ripudiata e tradita. Un aspetto che Euripide mette in risalto nel dramma è espresso chiaramente dalle parole di Medea:

Nessuno deve considerarmi un’incapace o una debole o una persona mite. Altro è il mio carattere: violenta con i nemici e con gli amici buona”.

In modo analogo, se Eldira avesse manifestato direttamente la propria ira nei confronti del marito, avrebbe dovuto ammettere anche il proprio dolore e affrontare le proprie debolezze nel ritrovarsi sola.

In un monologo del dramma di Euripide, si legge che Medea prima vacilla, poi però conferma la sentenza di morte nei confronti dei propri figli (“bisogna osare questo”) per non essere derisa lasciando impuniti i nemici, in altre parole il marito. Quando Giasone le domanda: “hai ritenuto giusto ucciderli per il letto?”, la madre oltraggiata risponde: “pensi che questa sia una sciagura piccola per una donna?”.

Da questo passo emerge sia l’importanza del giudizio che una donna, abbandonata e tradita dal marito, può ricevere dalla società, sia l’importanza che il “maschile”, rappresentato dal marito, dal padre o dal datore di lavoro, può rappresentare per una donna. Come accade ancora in alcune società, la donna non può essere “pensata” senza un uomo accanto a sé, che dia un significato alla sua esistenza, e questo pensiero continua ad essere incarnato anche da molte donne occidentali nel 2014.

Pensiamo alla “sciagura” che aveva previsto Eldira per sé e le sue figlie nel momento in cui il marito decide di lasciarla per un’altra donna: “Le mie figlie sono condannate a un futuro di miseria e di prostituzione”. Probabilmente Eldira non poteva più esistere come donna e come madre in assenza di una figura maschile accanto a sé, ma solo come prostituta. L’uccisione delle tre figlie è passata, così, come un gesto d’amore estremo, violento.

Eldira incarnava il mito della buona madre fino alla disperazione.  Se si comprende l’atto separandolo dalla persona, questa storia non è più “incredibile” di altre. Mentre una madre si sottopone al processo, ce ne sono altre colpevoli dello stesso gesto che attendono nelle prigioni di essere giudicate. Eh si! Ma giudicare cosa? Lo stesso giudice, nella sua identità umana, è alle prese con una storia che va oltre la sua persona, e non può lasciare che si esprima quando giudica la storia di un altro (Marinopoulos, 2005).

Una giustizia giusta dovrebbe punire l’atto omicida comprendendo la persona che ha agito, cioè infliggendo una pena che “curi” l’individuo, comprenda il suo atto, che metta a nudo la maternità, svelandone tutti i suoi paradossi, che sono i paradossi della vita e degli esseri umani, che aprono d’improvviso uno squarcio sulla mostruosità di cui siamo portatori.

Così come Medea, al termine della tragedia, ricorre ancora una volta alla sua magia, si rende invisibile immergendosi in una nube fatata, così Eldira cerca di cancellare tutto ciò che fino a quel momento le dava la forza di vivere. Inizia un percorso a ritroso. Comincia dalla figlia più piccola, Keisi, 3 anni, poi va dalla secondogenita, Sydni, 10 anni, e infine, nonostante la disperazione di Simona, 13 anni, uccide anche lei. Prende il corpo di ciascuna e lo adagia nel letto matrimoniale, da dove, simbolicamente, è stata concepita la vita di ogni bambina. Infine, tenta di cancellare la propria vita, colpendosi l’addome, da dove sono state generate le figlie, e il collo. “Ora l’ira nei confronti del marito è compiuta. La punizione è appropriata al crimine”.

Quando Giasone, in uno degli ultimi versi invoca i figli dice: “o figli carissimi”, Medea replica: “alla madre si, a te no”, allora il padre domanda: “e poi li hai uccisi?” e l’infanticida risponde: “per tormentare te”.

E così questa storia che, seppure incredibile, è conosciuta fin dall’antichità si chiude allo stesso modo di molte altre. Tuttavia, a mio avviso, ciò che è veramente incredibile è l’assoluta mancanza di prevenzione per queste problematiche, a fronte dell’aumento di donne che dimostrano una sofferenza psichica. Paradossale per una società che possiede sempre più mezzi per curare l’uomo. Dobbiamo pensare che un certo tipo di sofferenza sfugge al progresso?

Intanto i drammi continuano, e anche i drammi, si sa, sono utili a far muovere l’economia.

Aurora Capogna

 

BIBLIOGRAFIA

Euripide, Medea, 431 a.C.

Pasolini P., Medea, 1969 (film)

Capogna A., Dalla mitologia alla cronaca, Psico-Pratika N°62.

Marinopoulos S., Nell’intimo delle madri, Ed. Feltrinelli, Milano, 2006.

Malan D.H., Psicoterapia in pratica, Nuova Casa Editrice L.Cappelli, Bologna, 1981.

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