“Quali sono stati i motivi di una così potente affermazione del No? Dopo il risultato referendario questa domanda non è riuscita a imporsi nel dibattito del partito democratico. In assenza di analisi avanzano scenari e soluzioni utili a disegnare e garantire assetti ma, credo, poco utili a risolvere i problemi e a dare risposte ai nostri militanti.
È evidente che ci sono stati nostri errori e sottovalutazioni. È difficile, tuttavia, trovare il modo di parlarne serenamente. Anche in un momento così drammatico, comunichiamo separatamente con il nostro popolo. Non come un “collettivo”, come una comunità e un partito impegnati in un confronto. Intervengono i “leader”, i capi corrente: il più delle volte attraverso dei twitter e comunicati stampa, raramente in un rapporto diretto con le persone; oppure si alimentano i gossip giornalistici, elevati a commento e analisi politica.
È difficile confrontarsi sulle idee, perché si punta principalmente a criticare o distruggere chi le idee ha il coraggio di esprimerle: una deriva, questa, irresponsabile e autodistruttiva. Vorrei provare a uscire da questo schema.
1. Credo che il motivo più evidente dell’affermazione del No e del sentimento che lo ha sostenuto, lo abbia suggerito l’Istat nelle ore successive al risultato elettorale: un aumento incredibile delle disuguaglianze sociali. Una situazione economica mossa e diversificata, ma nella quale prevale un mix tra incertezza sul futuro, una bassa produttività e una moltitudine di giovani economicamente emarginati.
Una recente analisi del Mckinsey Global Institute (poorer than their parents) illustra che tra il 2005 e il 2014 una quota che va dal 65 al 70% delle famiglie, in 25 economie avanzate, ha visto ridursi o non crescere il proprio reddito; nel periodo 1993 – 2005, invece, questa quota era solo del 2%.
L’Italia, inoltre, è risultato il paese con la più alta percentuale di famiglie che non ha visto crescere il proprio reddito disponibile: il 97%. Potrei continuare, ma è evidente che su questo tema c’è stata una grandissima sottovalutazione dello sconvolgimento sociale che sta avvenendo in occidente, mentre le grande potenze asiatiche continuano a crescere con impeto e minacciosamente. Qui è radicata la rabbia e la paura.
Ciò spiega perché il racconto di Renzi, del tutto legittimo, rispetto allo sforzo compiuto per il rinnovamento, ai risultati ottenuti per il miglioramento del paese, pieno di speranza e di ottimismo, non ha coinciso fino in fondo con ciò che milioni di persone percepiscono quotidianamente: la fatica del vivere, la precarietà, una sensazione di esclusione e di abbandono. Ecco la delusione per qualcosa che la politica ha promesso e che, se in parte realizzato, riguarda solo gli altri.
Non abbiamo saputo parlare alla marcata dualità dell’Italia; rivolgendoci contemporaneamente alla parte produttiva, ricca, integrata alle aree più forti dell’Europa e a quella, geograficamente trasversale, più dolente, povera, con scarse prospettive. Qualcosa evidentemente non ha funzionato se non siamo riusciti a tenere insieme nel nostro discorso i ricchi e i poveri e il sostegno alle energie più forti con l’accorciamento delle distanze tra chi ha e chi non ha. Non è poca cosa; perché la sinistra ha in questo la sua ragione fondamentale per esistere.
2. Il secondo motivo che ha inciso non poco è stato il nostro isolamento. Già nelle amministrative c’era stato un campanello di allarme. Nella prima repubblica un missino non avrebbe mai votato Pci, nel nostro tempo gli elettorati si sommano. È, dunque, di fondamentale importanza, anche a fronte del lavoro per una nuova legge elettorale, capire come rigenerare un campo progressista e una rete di alleanze politiche che non rendano solitario, nella sua battaglia, il partito democratico.
Ciò non significa tornare alle coalizioni infinitamente numerose di partiti, rissose, eterogenee, insieme per ragioni esclusivamente elettorali, avide di potere e dominate dai calcoli egoistici di ogni componente. Significa più semplicemente ragionare in termini di un campo largo democratico e progressista, aperto, plurale, capace di decidere attraverso forme rapide ed efficaci di democrazia di coalizione e anche attraverso un rapporto diretto con gli iscritti e gli elettori.
Con questo spirito abbiamo vinto in tante città; penso all’esperienza di Pisapia a Milano, di Zedda a Cagliari, di Merola a Bologna e potrei continuare; e penso anche al risultato nel Lazio, seconda regione italiana, dove grazie allo spostamento verso di noi del 12% dell’elettorato, abbiamo potuto governare per 4 anni con una alleanza ampia e, mi sembra, all’insegna dell’innovazione, del cambiamento e della giustizia sociale.
3. Infine, il partito. Nella riunione della direzione del Pd non si è discusso e nei giorni successivi è emerso un drammatico quadro di frammentazione. L’attivismo di gruppi, sottogruppi, correnti e infuocati “capi locali” è stato più forte dell’identità unitaria e di ogni capacità di ascolto. È prevalso il rifiuto pregiudiziale delle ragioni dell’altro, che sta rendendo il post referendum addirittura peggio del risultato: cadere è grave, non riuscire a reagire e rialzarsi è addirittura peggio.
Vengono al pettine problemi emersi da anni e paghiamo il prezzo dello scarso investimento sul partito e il suo rinnovamento dei gruppi dirigenti che si sono susseguiti fino a oggi. Per altro le attuali correnti, in assenza di visione, garantiscono solo nicchie di potere, al contrario di un tempo, quando nella prima repubblica, avevano almeno il merito di garantire rapporti di massa con la società e custodire profili politici. Questo schema va spezzato e nessuno di noi può essere chiamato a rafforzarlo, schierandosi in modo meccanico. Sarebbe come imitare quel film del 1983 War Games: alla fine del gioco nessun vincitore.
Dobbiamo, al contrario, superare una degenerazione che per responsabilità di tutti, ha trasformato e ridotto i militanti in tifosi e ha diviso i dirigenti tra quelli al “servizio” o “contro” il capo. Probabilmente l’autonomia culturale, la libertà e la responsabilità che ne scaturisce, le abbiamo buttate insieme alle cose del passato che effettivamente andavano superate. Ma esse non erano un problema, semmai, un valore e una ricchezza.
Detto questo, e per le ragioni dette, oggi sarebbe illusorio e sbagliato pensare che un rilancio della forza e delle ragioni della sinistra passi dalla caduta di Renzi. La Cnn dopo il voto ha intervistato Di Maio, non Fassina. Il teorema secondo il quale la sinistra per risorgere deve cannibalizzare e uccidere i suoi leader, è un film tristemente già visto.
Non ho mai votato per Matteo Renzi e dopo i suoi trionfi non ho mendicato intorno alla sua corte; ma oggi con serenità dico che è profondamente ingiusto negare che rappresenti una grande forza e che grazie alla sua leadership il Pd si è ricollocato al centro della scena politica e ha avuto di nuovo un chance. Così come credo sia un errore fuorviante pensare che mandare fuori la sinistra dal Pd garantirebbe una identità “pura”, vincente e finalmente innovativa. Un partito di uguali equivale a un partito di pochi e spesso mediocri. Il pluralismo si organizzerebbe fuori in forme autonome e il Pd rimarrebbe Pd solo nel nome.
Oggi si tratta di affrontare l’enormità dei temi che abbiamo davanti e non di scaricare le responsabilità su contrapposti capri espiatori. Dopo la battaglia referendaria che il segretario ha combattuto con tenacia e forza, e che io ho condiviso, tocca proprio a Renzi riaprire il discorso. E tutti con occhio sereno e senza pregiudizio, hanno il dovere di ascoltare e valutare se in questa riapertura di discorso ci sono quelle correzioni e la svolta che ritengono necessarie.”
Così in una nota Nicola Zingaretti, Presidente della Regione Lazio.