In questi giorni ho seguito con interesse gli interventi di alcuni autorevoli architetti, urbanisti e rappresentanti istituzionali sulla vicenda dei “villini storici” nella città di Roma e sul ruolo della Regione Lazio. Mi sono insediato da pochi giorni alla guida dell’Assessorato regionale all’Urbanistica, ma credo opportuno fornire delle precisazioni su presunte incompletezze normative.
La legge regionale per la Rigenerazione Urbana, insieme ai suoi ambiti di applicazione da parte dei Comuni, non ha semplicemente sostituito il “Piano Casa”, legge di tipo derogatorio, ma ha determinato un quadro normativo di tipo ordinario, che mira ad assegnare maggiori poteri proprio ai Comuni e ai cittadini. Nuove prerogative per intervenire nelle zone degradate e compromesse con l’obiettivo di riqualificare i tessuti urbanistici disomogenei e ridare dignità a tutte le periferie delle città e dei paesi della Regione Lazio.
La norma, pertanto, trova applicazione nei tessuti urbanizzati presenti nell’intero territorio regionale e non fa riferimento solo a Roma Capitale, con il fine di limitare il consumo di suolo, razionalizzare il patrimonio edilizio esistente e recuperare le aree urbane con funzioni eterogenee e tessuti edilizi incompiuti, migliorando la sicurezza statica, insieme a quella sismica, e l’efficienza energetica degli immobili esistenti (come, ad esempio, le zone colpite dal terremoto e quelle potenzialmente a rischio) e favorendo la realizzazione e il completamento delle opere pubbliche.
La nuova legge, inoltre, vuole affrontare la sfida della semplificazione delle procedure. In questo quadro, la Regione Lazio ha voluto consegnare una norma ordinaria ai Comuni per il governo dei processi di rigenerazione urbana, sia attraverso l’intervento diretto (artt. 4, 5 e 6), che con la definizione degli ambiti di rigenerazione urbana (art. 2) e di recupero edilizio (art 3), che potranno essere sia di iniziativa pubblica che privata.
Il provvedimento regionale stabilisce dove è possibile applicarla nella generalità del territorio (nelle porzioni di aree urbanizzate, come individuate nella carta dell’uso del suolo, su edifici esistenti e legittimamente realizzati) e dove invece non si può applicare (nelle aree sottoposte a vincolo di inedificabilità, nei parchi regionali e nelle aree agricole). Spetta invece ad ogni Comune entrare nel merito specifico degli ambiti e delle singole zone. Come recita anche l’art. 4 della legge regionale, infatti, i Comuni ne possono limitare l’applicazione con una semplice deliberazione consiliare.
Solo Roma Capitale e pochi altri Comuni hanno individuato nel proprio Piano regolatore le zone come “tessuti” e solo la città di Roma ha individuato “zone storiche omogenee dell’800 e del ‘900”, mentre le leggi nazionali fanno riferimento “… a parti di territorio interessate da agglomerati urbani che rivestano carattere storico, artistico e di particolare pregio ambientale…”. Proprio con una delibera di Consiglio comunale, dunque, le Amministrazioni locali possono governare tutti i processi di trasformazione del territorio, tutelando, rigenerando e valorizzando il patrimonio esistente.
Non credo, pertanto, che questa legge presenti dei buchi nella tutela e nella salvaguardia del patrimonio urbanistico, ne tanto meno favorisca la speculazione edilizia. D’altronde, da capogruppo del Pd in Consiglio regionale nella scorsa legislatura, ricordo come fosse un obiettivo prioritario quello di evitare qualunque forma di speculazione e di possibili ricadute negative per il tessuto urbanistico del Lazio.
L’Amministrazione regionale, comunque, è sempre disponibile a collaborare con tutti i Comuni e a ricevere osservazioni e proposte per condividere al meglio il quadro normativo.
Massimiliano