25 Novembre, 2024
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Storie Nere – RAPITA

Quel turno di servizio sembrava non finisse più. Avete presente quelle giornate in cui tutto è immobile e non succede nulla, ma proprio nulla? Quella sembrava essere proprio un’interminabile giornata di quelle. In una penombra surreale, con le tapparelle abbassate e un piccolo ventilatore che mi sparavo dritto in faccia, il mio ritratto liquefatto, sulla sedia di finta pelle nera consunta del mio ufficio, sembrava sfuggisse alla propria cornice, in cui quel disegno di presente stava per volgere al passato, senza lasciare traccia di sé come in un giorno qualunque.
Isola – fine Luglio del 1986, posto di Polizia estivo, turno 13,00/19,00, all’incirca alle 18,15, la volante di pattuglia aveva condotto in ufficio una bambina di circa 7/8 anni. Mi riferì il collega che quella piccola nomade era stata segnalata loro, da alcuni bagnanti, aggirarsi per la spiaggia, troppo vicina ai loro ombrelloni. Era scalza e indossava un vestitino sporco e lacero ed aveva completamente il capo rasato con qualche cicatrice. Quei segni di lesioni erano presenti anche sulle sue braccia e sulle sue gambe smagrite ed esili. Era visibilmente impaurita e smarrita. I colleghi l’affidarono a me. Mi chiese subito di andare in bagno per lavarsi le mani, visto che le avevamo offerto un panino e un bicchier d’acqua. Quanta attenzione all’igiene per essere una bambina che viveva per strada e in un campo nomadi! In effetti lo scorrere dell’acqua, catartica e purificatrice, sulle sue mani diede il via a dei racconti raccapriccianti.
– Io non sono una zingara. Loro mi mandano a rubare. Ma io non voglio.
– Chi loro? Le chiesi io, inizialmente, incredula!
– Gli zingari. Loro mi mandano a rubare, soprattutto sulla spiaggia, e se non porto i soldi mi ammazzano di botte. Qualche volta mi hanno legata anche ad un albero per molte ore, anche di notte.
Il suo accento slavo sembrava cozzasse con la realtà che mi stava raccontando. I suoi tratti somatici, però, non sembravano essere quelli di una nomade! Aveva la pelle chiara, due grandi occhi neri, lineamenti delicati e i suoi capelli rasati, un po’ricresciuti, sembrano essere piuttosto chiari.
La storia iniziava a tingersi di giallo!!!
Sentii parlare a voce alta, all’ingresso del Posto di Polizia. Feci cenno alla bambina di aspettarmi lì. Vidi due nomadi, una donna e un uomo che, in maniera agitata, chiedevano di una loro figlia che era sparita e che non aveva fatto ritorno al campo Rom. Feci segno ai miei colleghi di prendere tempo e di non riferire loro che la bambina si trovasse lì. Dovevo capire qualcosa in più. Non appena rientrai in bagno, trovai la piccola rannicchiata sotto il lavandino, impaurita e tremante.
– Li ho sentiti, sono qui sono venuti a prendermi! Loro non sono i miei genitori. Mi hanno rubata dalla mia vera mamma.
Rubata o rapita cambiava poco! Nella sostanza qualcosa di grave era accaduto nella vita di quella creatura innocente.
Quella sua frase, nonostante il caldo torrido, mi raggelò! L’abbracciai e cercai di tranquillizzarla. Io le credetti! Sentivo dentro di me che quella bimba terrorizzata non era una nomade. Adesso però dovevo cercare dei riscontri e convincere sia l’Ispettore responsabile che il magistrato di turno!
– Non piangere e non ti muovere da qui. Adesso andrò nel mio ufficio e cercherò di far luce su questa storia.
I due nomadi si agitavano, piangevano, urlavano, chiedendo notizie della loro figlia scomparsa. Dalle loro tasche tiravano fuori di tutto per essere creduti. Documenti e foto. Ma un documento dei tanti, sparsi sulla mia scrivania, attirò la mia attenzione. La donna risultava essere affetta da sterilità primaria. Quindi, come poteva essere figlia sua quella piccola creatura?
Visti che i colpi di scena si susseguivano, venne prontamente informato il magistrato di turno dei Minori di Isola. L’Ispettore, il Magistrato ed Io, credemmo subito a quella bambina; sembrava che il buon Dio l’avesse messa sulla nostra strada, per toglierla da quell’inferno. Fintanto, la bambina era stata portata, da alcuni miei colleghi, in un’altra stanza e fatta rifocillare e un po’ rasserenare.
I due vennero sentiti separatamente e diedero versioni assolutamente discordanti. La donna sosteneva che era prima sua figlia e poi, dopo averle fatto leggere la diagnosi da lei stessa esibitaci, cambiò prontamente versione, riferendoci che la bambina era figlia di una sua sorella e che stava con lei da anni. Invece il marito aveva dichiarato che quella bambina non sapeva chi fosse e che stava con loro da mesi. Furono arrestati entrambi.
Con l’Interpol cercammo le tracce dei suoi genitori, all’estero, ma senza alcun risultato, nonostante la piccola Luna, che così decise di chiamarsi, ci fornì delle buone informazioni, come il ricordo di sua madre, una donna giovane e bionda che aveva un bar insieme a suo padre, in un paese dell’Ex Iugoslavia. Non si conobbero mai le origini di quella bambina. Fu data inizialmente a me in affidamento, successivamente ad una casa famiglia e, nel giro di un anno, fu adottata da una buona famiglia di una città vicina ad Isola, proprietari di un albergo. Lei mi aveva eletta come sua madre ma, per una serie di gravi problemi personali, non potetti ulteriormente proseguire nell’affidamento. Per il suo bene, da parte dei servizi sociali, mi venne consigliato di non contattare più la bambina, altrimenti non si sarebbe mai più staccata da me e legata ad una nuova famiglia. Un giorno dalla Casa Famiglia scappò per venire a cercarmi: la ritrovarono dopo qualche ora di ricerche in un campo lì vicino.
A volte mi capita di sognarla, ancora bambina, che corre felice e libera in un campo di grano, con le spighe più alte di lei, che viene a cercarmi ed io, in fondo a quel tappeto aureo, l’aspetto ancora lì, seduta.

Anguillara Sabazia, lì 23 marzo 2019

Luciana Crucitti

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