23 Dicembre, 2024
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Dario, da Roma a Milano per combattere il Covid-19

Giovane infermiere in un ospedale lombardo: “Sconfiggere insieme il virus sarà la vittoria più bella”

 

 

 

In questo periodo di crisi dovuto al virus Covid-19 ci sono degli eroi che lavorano giorno e notte per salvare più vite umane possibili. Tra questi Dario Ferrara, un ragazzo romano che da qualche mese vive a Milano per fare il mestiere che a lui sembra essere il più bello del mondo: l’infermiere. Sul suo profilo una sera ha pubblicato uno sfogo dopo un’intensa e stremante giornata di lavoro.

“Ormai è più di un mese che lavoro in ospedale durante l’emergenza da Covid 19, il nemico invisibile, come è stato definito da molti. Invisibile, ma io, in questa trincea che da oltre un mese è diventato il mio mondo, l’ho visto questo essere minuscolo. L’ho visto negli occhi spaventati delle persone; l’ho visto nella loro disperazione alla notizia di positività; l’ho visto nella loro fame d’aria prima di un’intubazione; l’ho visto nel loro essere privati della possibilità di abbracciare e vedere i propri cari durante la malattia. L’ho visto, il nemico invisibile, in chi muore solo. Mi hanno chiesto se ho paura. La paura c’è, ma nello stesso tempo, mi è scattata una voglia di rivalsa verso questo virus. Una voglia di affrontarlo a quattrocchi, in un ring di battaglia, quotidianamente, come fosse un rivale sportivo durante una competizione agonistica. Nonostante la tuta stretta, le lesioni sul volto causate dalla mascherina, gli occhiali appannati. Una sfida, e sono sempre stato un amante delle sfide difficili. Da solo probabilmente potrò fare ben poco, ma se siamo tutti insieme – chi sul campo come me, i miei colleghi e i medici, chi continuando a lavorare nei servizi essenziali, chi restando a casa – il Coronavirus non avrà scampo. E sarà la vittoria più bella”.

Dario ha accettato di raccontare la sua esperienza, ma lui non si definisce un eroe, anche se sicuramente qualcosa di straordinario la fa ogni giorno.

“Ho 26 anni e sono un infermiere da ormai più di tre anni. Lavoro a Milano, in Lombardia, da più di un anno ormai e sono sempre stati in ambito critico. Lavoro in terapia intensiva coronarica, di rianimazione e pronto soccorso: in questo momento lavoro proprio in pronto soccorso. Mi piace molto viaggiare, amo il mio lavoro e ho deciso di venire a Milano per fare un’esperienza di vita diversa, volevo provare a lasciare la mia città, la mia amata Roma, e fare un’esperienza in una città nuova”.

Dario, secondo te, perché la Lombardia ha registrato in proporzione il più alto numero di contagi e di deceduti rispetto al resto del mondo?

“Non sono un esperto, ma secondo me ci sono due motivi sostanziali. Il primo si può ricondurre al fatto che la Lombardia è la regione economicamente più sviluppata d’Italia, quindi quella che ha sicuramente più scambi commerciali con l’estero. Molte fiere, molti scambi culturali che possono essere stati un fattore di maggiore circolazione del virus. Per quanto riguarda la seconda causa, secondo me, è da attribuire alla forte mobilità che si verifica ogni giorno in Lombardia. La gente si muove per lavorare in tutta la regione, ad esempio io lavoro a Milano e ho tanti colleghi che vengono da Pavia, alcuni anche da Novara in Piemonte, molti da Como e altri da Lodi”.

Come è la situazione vista da chi ogni giorno tocca con mano questo virus?

“Sono impiegato in pronto soccorso e spesso mi ritrovo a lavorare nell’area dei codici gialli e dei codici rossi. Purtroppo è molto pesante perché spesso succede che ci si prova ad immedesimarsi in quei pochi pazienti che arrivano orientati e coscienti in quel che definisco “lazzaretto”, ovvero una postazione di 20-25 posti letto dove molti pazienti sono intubati o assistiti dal casco c-pap perché non respirano. Molti, invece, arrivano disorientati. Provate ad immaginare un paziente orientato che magari arriva in questo posto: deve essere qualcosa di tremendo, perché ci si ritrova in un ambiente chiuso, con le luci sempre accese, senza la possibilità di avere un familiare accanto, molto spesso con intorno a te anziani magari disorientati che non riescono a respirare e che urlano. Le uniche persone con cui puoi parlare, che sono magari medici e infermieri, imbardati come degli astronauti.  Noi molto spesso ci ritroviamo non solo ad essere infermieri, quindi operatori sanitari, ma anche a cercare di fare da tramite con i parenti. Nel mio ospedale abbiamo fatto un servizio con un tablet per permettere ai pazienti di fare le videochiamate con i loro cari. Perché è questa la cosa tremenda di tale malattia, per questo nel post ho detto che gli eroi non siamo noi ma sono loro, che veramente sono soli. La gente quando muore sola, che sia un paziente o un sanitario, è tremendo a livello psicologico. È davvero pesante perché molti pazienti, giustamente, si trovano a dover affrontare momenti di crisi, soprattutto psicologiche, e tu, sanitario, sei l’unico con il quale loro si possono sfogare. Vi assicuro che in due mesi ho subito tanti sfoghi brutti.  Qualche collega ha avuto dei lutti in famiglia e lavorare in situazioni di dolore e stress, quando si deve curare un’altra persona, non è per niente facile. Noi cerchiamo non solo di fare il nostro lavoro al meglio, ma anche di mettere in contatto queste persone, quando è possibile e quando non sono intubati, con i familiari.

Il consiglio che do è quello di stare a casa perché questo virus è purtroppo molto infame e  colpisce senza scrupoli né logica. È un virus fortemente aggressivo che in alcuni casi può dare delle brutte conseguenze, come una polmonite interstiziale molto acuta soprattutto a chi è in terapia intensiva.

Non abbiamo ancora un vaccino o una cura, quindi l’unico modo è il distanziamento sociale. Bisogna seguire le indicazioni del Governo, indossare la mascherina e tutte le protezioni imposte. Veramente noi possiamo essere dei vettori e involontariamente possiamo fare del male alle persone a noi care”.

Dario, tu come la stai vivendo questa lotta contro il Covid-19?

“Personalmente avendo visto veramente tante cose brutte e avendo anche parlato con molti pazienti ho sempre fatto questo paragone: è come se il virus, per quanto possa essere minuscolo l’ho visto davvero nella sofferenza delle persone, nella fame d’aria che il virus dà. L’ho visto nel panico che genera anche la notizia della positività, per non poter vedere più le persone care. Però, nello stesso tempo, avendo visto tutto ciò che di brutto ha fatto questo virus viene ancora più voglia di affrontarlo e di combattere uniti per debellarlo. La mia esperienza in questi mesi ha stimolato la reazione. È la nostra battaglia più grande. Questa lezione deve essere un messaggio di speranza per tutta l’umanità e deve far sì che tutta l’umanità insieme, facendo ognuno il suo, stando a casa, facendo i servizi essenziali, lavorando in ospedale, possa vincere insieme. Tutti noi siamo l’unica possibilità per battere questo virus e sono sicuro che ce la faremo”.

Federica D’Accolti

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