(Avvenire) “Sparizioni forzate, torture, violenza sessuale, crimini commesse indiscriminatamente su donne, uomini e anche bambini”.
L’inferno libico rivive nelle parole di Fatou Bensouda, la procuratrice della Corte penale internazionale dell’Aia che preannuncia nuovi mandati di cattura. Sul suo tavolo ci sono anche i nomi dei boss delle milizie libiche affiliate al goverrno, accusati di crimini di guerra e “sistematiche atrocità” contro migranti e profughi.
Quando nero su bianco verranno rese pubbliche le identità dei principali sospettati, molti governanti europei arrossiranno per aver sostenuto, finanziato, in qualche caso perfino accolto, alcuni tra i più sadici e avidi criminali libici. La notizia arriva quando il governo di Tripoli sta sferrando un pesante attacco contro una delle più importanti basi operative dell’aviazione di Haftar, colpita proprio mentre il generale si trova fuori dal Paese, alla ricerca di rinnovati sostegni, dopo che negli ultimi giorni ha dovuto incassare segnali di insofferenza da Mosca, il principale sponsor dell’uomo forte della Cirenaica. L’esercito di Haftar è indicato nel rapporto dell’Aia come tra i responsabili di gravi violazioni a danno della popolazione civile, colpendo anche “ospedali e altre infrastrutture protette dal diritto internazionale”.
La procuratrice Bensouda riferendo in videoconferenza al Consiglio di sicurezza Onu ha detto di essere molto preoccupata “per le
notizie che indicano come migranti e rifugiati in Libia siano regolarmente sottoposti ad abusi”.
Il campionario fornito dal rapporto degli investigatori internazionali punta l’indice contro le autorità di Tripoli, per complicità e omissioni con i trafficanti. Gli investigatori della Corte penale, “i quali – avverte Bensouda – hanno compiuto significativi passi in avanti”, confermano come le violazioni siano organizzate, sistematiche e continuate. Non c’è quasi nulla di impulsivo o imprevedibile: “Detenzione arbitraria, uccisioni illegali, sparizioni forzate, torture, violenza sessuale e di genere, rapimenti per riscatto, estorsione e lavoro forzato”. Abbastanza per passare il resto della vita in una cella del Tribunale internazionale, semmai un processo verrà avviato.
Ad oggi la Libia si è sempre rifiutata di consegnare i ricercati, dagli eredi del colonnello Gheddafi ai carnefici protetti da Haftar e lasciati ancora liberi di seminare terrore e morte. Grazie anche alla protezione di Paesi come l’Egitto, dove secondo “informazioni attendibili”, si nascondono alcuni dei macellai libici.
Ma le accuse alle autorità del governo riconosciuto e tenuto in piedi dalla comunità internazionale non sono da meno. “Si stima che 2.000 migranti e rifugiati, compresi bambini, sono detenuti a Tripoli e nei dintorni. Continuano – si legge nel dossier – a essere particolarmente vulnerabili data la loro vicinanza all’intensificarsi del conflitto armato”. Non si tratta solo delle strutture clandestine, gestite dalle milizie affiliate al governo, ma di campi di prigionia controllati direttamente dalle autorità. “I centri di detenzione dei migranti sono stati colpiti da bombardamenti e attacchi aerei in almeno due occasioni”, durante il periodo da novembre 2019 ad aprile 2020. L’Ufficio del procuratore “continua ad affrontare le persistenti accuse di gravi crimini commessi contro i migranti in Libia, anche nei centri di detenzione ufficiali”.Quelli finanziati da Italia ed Europa e dai quali sale il grido “di chi tenta di attraversare il Paese” e di chi viene catturato dalla cosiddetta Guardia costiera, poi di nuovo gettato nelle camere della tortura tra costa e deserto. “Un problema grave e – assicura Bensouda – il mio ufficio continua a dedicare energie per indagare”.
Ottenere giustizia non sarà facile. Tripoli non ha firmato la Convenzione di Ginevra per il Diritti dell’Uomo e neanche ha aderito allo Statuto di Roma, che stabilisce le competenze della Corte penale.
La strategia investigativa procede su due direzioni. “In primo luogo, l’Ufficio – chiarisce il rapporto – continua a raccogliere e analizzare le prove di tali crimini e a valutare se i requisiti probatori e legali necessari sono soddisfatti al fine di presentare un caso dinanzi al Tribunale penale internazionale”. In questo modo le vittime possono chiedere giustizia e anche un risarcimento. Ma per corroborare le accuse, la procura “continua a impegnarsi attivamente con gli Stati e le organizzazioni pertinenti (in particolare le agenzie Onu sul campo, ndr) per scambiare prove e informazioni”. Il fine non è solo quello di trascinare all’Aia i sospettati, ma anche “sostenere le autorità nazionali per indagare e perseguire nelle rispettive giurisdizioni”. Ad esempio l’Italia, dove ci sono inchieste in diverse procure, spesso rallentate dall’impossibilità di poter inviare inquirenti sul posto. A disposizione dei magistrati dei vari Paesi, dunque, ci sono anche le prove raccolte dagli investigatori della Corte penale. Elementi, a quanto trapela, già forniti a diverse procure anche italiane.