La crisi ecologica e quella sanitaria ci ricordano che esiste un patrimonio che può essere rivitalizzato dopo gli anni dello spopolamento.
Paese di mille campanili, l’Italia. E di mille e mille borghi. Eppure, spesso si tratta di luoghi ignoti o dimenticati. Una certa narrazione un po’ naïf ci parla di luoghi ameni, vita sana, buon cibo, gente semplice e gioviale, paesaggi eccellenti… tanto che a volte viene da chiedersi se siano proprio questi i borghi al centro di una delle vicende più drammatiche della storia italiana della seconda metà del XX secolo: lo spopolamento che li ha svuotati. Un dramma silenzioso. Negli ultimi tempi un nuovo interesse si è focalizzato su piccoli comuni e borghi che caratterizzano gran parte delle nostre aree montane e aree interne. Questa moltitudine di insediamenti è una componente fondamentale della nostra penisola. I circa 5.500 comuni di piccole e piccolissime dimensioni sono considerati un’Italia “minore”, per la quota di popolazione che vi risiede (circa 1/6 del totale), ma forniscono i caratteri inconfondibili del nostro Paese. Una presenza particolarmente marcata in alcune regioni, ma che pervade tutto il Paese.
Questi borghi sono caratterizzati da un’abbondanza di varietà di natura e cultura, di sfumature idiomatiche e patrimoni non scritti che costruiscono un’identità fatta di diversità ambientali e di saperi. Sono loro a rendere “unica” l’Italia. Sono archivi viventi a tutto tondo, custodi del senso di essere comunità. Eppure, i borghi minori, collinari e montani, sono stati il teatro di uno dei fenomeni più potenti di spopolamento e abbandono nell’Europa dell’ultimo secolo. Dopo generazioni che con grande fatica hanno cercato di vivere in equilibrio con territori difficili, e spesso in condizioni di miseria, nel secondo dopoguerra gli italiani hanno incominciato a scendere “a valle”, ingrossando le fila di quelle masse operaie che in seguito hanno dovuto fare i conti con la delocalizzazione e la cassa integrazione. E che ora, invecchiati, spaesati e disorientati, assistono alla fine di un’epoca industriale durata in fin dei conti lo spazio di un mattino.
Fino al 2000 si sono registrati tassi altissimi di spopolamento nei piccolissimi comuni montani. Dopo una breve pausa nei primi anni del nuovo millennio, il calo è ripreso in modo consistente nell’ultimo decennio. Ora, questi borghi sono caratterizzati da una popolazione prevalentemente anziana e da un tasso di invecchiamento più elevato rispetto al resto del territorio. Un’Italia più vecchia, dunque, ma immersa in contesti naturali di grande rilevanza ed erede di quel patrimonio agricolo forestale che costituisce la struttura portante del paesaggio italiano e delle sue dinamiche inimitabili. Oggi, più che mai, la geografia della montagna e dei borghi è una geografia forestale ed è la geografia della conservazione e delle aree protette. Era la geografia della fame, oggi è la geografia del presidio e dei servizi ecosistemici per le popolazioni delle città e delle pianure. Più volte nella storia repubblicana è stata intuita questa specificità di valori e sono state attivate misure più o meno efficaci per cercare di salvaguardare l’Italia dei Borghi. Nonostante dal 1952, con la promulgazione della legge Fanfani sulla bonifica montana (l. n. 991/1952), siano state introdotte misure di sostegno alle comunità delle aree interne, e nonostante questa normativa sia stata rinnovata alla fine dello scorso secolo (l. n. 97/1994) e poi nel 2012 sia partita la Strategia nazionale per lo sviluppo delle “Aree interne” (Snai) che gode di supporti comunitari, senza un vero investimento nazionale la tendenza all’abbandono delle colline, delle montagne e dei loro borghi non ha subito sostanziali inversioni di rotta, anche se qua e là si vedono fiorire buone pratiche di comunità resilienti, di ritornanti, di resistenti che fanno delle risorse locali la leva per la loro economia sempre dignitosa e di immenso valore sociale ed ecologico.
Ora la nuova attenzione verso questa Italia “minore” è determinata dal fatto che molte di queste comunità sono risultate an- che indenni dalla diffusione del coronavirus. Chamois in Piemonte, Gaiole in Chianti in Toscana, Otricoli in Umbria, Alfedena in Abruzzo, Bonefro in Molise: sono solo alcuni esempi di piccoli comuni “virus free” in Italia. L’isolamento fisico e la bassa frequenza di flussi di contatto, una buona gestione dell’emergenza sanitaria facilitata anche da una governance a conduzione quasi familiare hanno favorito questa situazione positiva. E ciò avviene nonostante la presenza di alcuni limiti evidenti, come la carenza di infrastrutture tecnologiche (banda larga), di trasporto ed energetiche.
Completamente “dimenticati” dalle reti energetiche e di telecomunicazione i Borghi d’Italia sono i luoghi dove si sta meglio affrontando la pandemia di Covid–19. Oggi, pertanto, si riaccendono i riflettori verso questa realtà, auspicando in alcuni casi il “ripopolamento” e in altri lo sviluppo di un “nuovo” turismo. La questione è più complessa e meriterebbe un’analisi più articolata ed approfondita e un intervento deciso della politica. Questa Italia, ad esempio, ha un patrimonio immobiliare che può essere recuperato e riutilizzato, con approcci bioeconomici verdi e circolari e tecniche sostenibili di bioedilizia, per nuovi residenti. Prima di questa operazione, che potrebbe tradursi in una una mera occupazione di territorio da parte di “truppe straniere”, è però necessario intervenire per risolvere le croniche carenze infrastrutturali anche per quanto riguarda le reti e i servizi alle comunità. Il reinsediamento di nuovi cittadini non può prescindere da queste nuove “connessioni”, così come sono da consolidare e allargare le infrastrutture relazionali nelle loro basi, che comunque sono rimaste forti e stabili nel corso degli anni dello spopolamento. Basti pensare alla forza che il volontariato e l’associazionismo hanno conservato nei piccoli comuni.
Si tratta in sostanza di stabilire un patto tra questa Italia “minore” e il resto del Paese. Un patto che passa innanzitutto attraverso il recupero delle risorse agricole–forestali– pastorali che caratterizzano le nostre aree montane e interne con tutte le filiere di eccellenza che ben conosciamo. Ad esempio, la riaffermazione della gestione sostenibile dei nostri boschi – la più grande infrastruttura verde del Paese, in continua espansione – oltre al ruolo ecologico ambientale che svolge può fornire un aiuto anche dal punto di vista economico e sociale, garantendo nuova occupazione a costi limitati.
La riappropriazione delle tradizioni della filiera foresta–legno, su basi tecnologiche innovative, a cominciare dai punti di prima trasformazione come le segherie, possono riattivare un’economia equa e sostenibile in intere vallate, cancellando quelle distorsioni e contraddizioni che la tempesta Vaia di fine 2018 ha portato alla luce dopo la devastazione di alcune delle foreste tra le più belle del Paese: come sistema– Paese ci siamo infatti trovati a dover ricomprare gran parte di quel legname che altri erano venuti a tagliare e preparare dopo la caduta degli alberi, e allo stesso tempo continuiamo a soddisfare l’80% del fabbisogno di legname delle nostre industrie approvvigionandoci dalle foreste più delicate e fragili del pianeta, di fatto importando deforestazione, con evidenti implicazioni etiche oltre che economiche.
Il riconoscimento dei servizi ambientali complessivi che tali territori assolvono nei confronti dell’intero Paese è dunque doveroso sia sul piano sociale che economico. Va riconosciuta la dignità e corrisposto il giusto valore economico– finanziario per i servizi non intercambiabili che ricadono sull’intera comunità, costruendo capacità e mentalità nuove che escludano il classico approccio assistenziale che finora ha concesso risorse come oboli di strutture economiche ispirate al principio dell’“usa–e– getta”. È fondamentale invece sviluppare un’economia che punti al contenimento dell’erosione e al recupero del dissesto idrogeologico, alla valorizzazione delle risorse legnose, ad un turismo dolce e destagionalizzato, ad un’agricoltura che permetta il mantenimento delle tante produzioni di qualità. Un’economia veramente circolare che punti all’uso e al riuso delle risorse. Un’economia che sappia far tesoro delle esperienze di smart working e di formazione a distanza che si stanno sperimentando in questo momento di emergenza sanitaria. Lo Stato ricominci a progettare e si faccia promotore, in una direzione sussidiaria, di porre le basi per un ritorno equo e sostenibile alla campagna e alla montagna, di coloro che saranno interessati a farlo. La sensibilità delle giovani generazioni in questo senso è molto promettente.
(Avvenire)