22 Novembre, 2024
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Silvia Romano: le fasi della sua liberazione

La Turchia pubblica una foto di Silvia Romano con un giubbotto antiproiettile turco e rivendica così un ruolo importante della cooperante italiana, atterrata ieri a Roma dopo 18 mesi nelle mani dei rapitori, prima in Kenya e poi in Somalia. L’agenzia di stampa turca Anadolu, citando una fonte dei servizi turchi, conferma la “stretta collaborazione” tra l’intelligence di Ankara e di Roma, con l’Italia che “ha chiesto” al Mit collaborazione nell’operazione di salvataggio, ottenendo l’ok dei servizi turchi, che hanno iniziato a lavorare al caso di Silvia lo scorso dicembre.

Il primo step ha permesso di circoscrivere l’area in cui Silvia era tenuta prigioniera. Oltre all’utilizzo di tecnologie militari e satellitari è stato fondamentale il fatto che in Somalia l’intelligence locale è in gran parte formata dagli addestratori di Ankara.

Questo lavoro, sempre secondo Anadolu, ha permesso al Mit (servizi segreti turchi) di confermare che Silvia era in buono stato di salute, individuandone la posizione, seppur al riguardo non siano stati resi noti altri dettagli. Secondo Anadolu, sarebbe stato proprio il Mit a prendere in consegna la ragazza (come la foto confermerebbe) per poi consegnarla alle autorità italiane a Mogadiscio.

Turchia-Somalia, 10 anni di amicizia

Il ruolo conclamato e fondamentale degli 007 turchi nella liberazione della nostra Silvia Romano trova spiegazioni politiche con radici consolidate. Per capire le origini della prossimità di due Paesi come Turchia e Somalia, infatti, bisogna fare un passo indietro al 2011, quando il presidente turco Recep Tayyip Erdogan visitò la capitale somala devastata da una terribile carestia, divenendo l’unico leader politico non africano a farsi vedere a Mogadiscio in oltre due decenni.

Erdogan rimase impressionato dalle condizioni del Paese e ordinò di fornire ingenti aiuti umanitari, che divennero il cavallo di Troia per concludere accordi di tipo diplomatico, con l’apertura della più grande ambasciata turca in Africa nel 2016, commerciale (250 milioni di dollari di scambio commerciale più 100 di investimenti turchi), logistico (compagnie turche gestiscono porto e aeroporto), scolastico e sanitario (a Mogadiscio è attivo il polo ospedaliero “Recep Tayyip Erdogan”).

Capitolo a parte riguarda la collaborazione militare e a livello di intelligence, con una base militare nella capitale in cui gli uomini di Ankara addestrano le forze di sicurezza locali, che utilizzano equipaggiamenti, armi, droni e mezzi turchi. Una collaborazione tanto importante per il governo somalo quanto sgradita ad Al Shabab, con i terroristi islamici che si ispirano ad Al Qaeda che hanno attaccato compagnie e ingegneri turchi con due diversi attentati negli ultimi 5 mesi.

Ad impressionare è stato il numero di progetti a livello commerciale, militare ed edilizio realizzati dalla Turchia, un dato in forte contrasto con le strategie intraprese e abbandonate dai paesi occidentali nel recente passato. I successi della Turchia e il potenziale somalo hanno spinto il presidente turco ad incrementare l’influenza politica e nominare un inviato speciale per la Somalia nel 2018, il primo nella storia della Turchia, con l’obiettivo di influenzare direttamente l’agenda politica locale e cercare di ricomporre la rottura tra il governo federale di Mogadiscio e la regione del Somaliland.

Altra importante forma di soft power turco si basa sulle numerose borse di studio garantite agli universitari locali, che si recano per studiare in Turchia per poi diventare la classe dirigente somala del futuro, conservando un occhio di riguardo nei confronti di Ankara. Altra forma di influenza invisa agli islamisti, che negli ultimi anni hanno colpito gli studenti beneficiari delle borse di studio turche in almeno due diversi attentati.

Ultimo atto dell’influenza turca, l’invito della Somalia alla Turchia a condurre delle ricerche di idrocarburi sui propri fondali. “Abbiamo ricevuto una proposta dalla Somalia – ha dichiarato Erdogan – , ci hanno detto (il governo somalo ndr) che nelle acque somale c’è petrolio e potremmo condurre delle ricerche, esattamente come al largo della Libia”. Si tratterebbe solo dell’ultimo atto di relazioni che tra Ankara e Mogadiscio sono cresciute esponenzialmente negli ultimi 10 anni, sia a livello commerciale, ma anche diplomatico e militare. La strategia portata avanti in Somalia ricalca lo schema già seguito in Sudan e, in parte, in Libia.
Tre tessere di un puzzle con cui il presidente turco ribadisce la propria influenza nell’Africa nord occidentale facendo uno sgarbo al nemico egiziano, il generale Abdel Fattah Al Sisi, cui Erdogan non perdona di “avere assassinato” Mohamed Morsi, a lui vicino per la comune adesione ai Fratelli musulmani.

L’influenza militare turca in Somalia, quindi, è cresciuta negli ultimi dieci anni sotto l’ombrello di un soft power che attraverso la costruzione di strade, ospedali, scuole e scambi commerciali, ha permesso ad Ankara di spingere la propria influenza nel Corno d’Africa fino a divenire uno degli attori principali nell’area.

La cooperazione militare tra i due Paesi ha permesso di fornire armi ed equipaggiamento e si è in una prima fase basata sull’addestramento di 1.500 militari di Mogadiscio, preparati da Ankara per la lotta al terrorismo islamico di Al Shabab, ma chiaramente nell’ottica di spingere al massimo la propria influenza in un’area già nell’orbita dell’impero ottomano.

Il ritorno in zone in passato sotto la protezione della Sublime Porta è da sempre uno dei capisaldi delle strategie del presidente Recep Tayyip Erdogan. I programmi di addestramento sono stati benedetti da Mogadiscio, che aveva visto fallire simili progetti lanciati da potenze occidentali, che hanno permesso alla Somalia di contrastare Al Shabab nel lungo termine e affrancarsi dalla burocrazia e dalla lentezza dell’Unione dei Paesi Africani.

Con il crescere degli investimenti della Turchia nel Paese quello che il governo turco ha voluto evitare è che punti di interesse del governo somalo e turco, così come ingegneri, cooperanti e medici, divenissero target per i terroristi, come già avvenuto nel recente passato con i progetti dell’African Union Mission (AMISOM), lanciati da Usa e altri attori internazionali e periti sotto la pressione degli islamisti.

Un esito che Erdogan è stato capace di scongiurare attraverso l’addestramento e l’equipaggiamento fornito alle truppe locali, con programmi di lungo termine poi sfociati nell’apertura nel 2017 della grande base militare a Mogadiscio. Con l’apertura della base Erdogan ha così scongiurato direttamente il rischio, già corso in passato, che la capitale potesse finire in mano ad Al Shabab e si è garantito una struttura capace di addestrare fino a mille militari alla volta e puntare così a portare a 10 mila il totale dei soldati somali preparati da Ankara. Un dato importante, se si pensa che nel Paese sono in tutto 2 mila i militari che hanno ricevuto addestramento dagli Usa nei decenni passati.

La struttura, la più grande base militare turca oltremare, ha spinto il premier somalo Hassan ali Khaire a ringraziare la Turchia per “aver ricostruito dalle fondamenta” le forze somale e ha permesso a un leader musulmano come Erdogan di assumere una sorta di leadership morale-religiosa contro un’organizzazione che fa dell’adesione più radicale all’Islam la propria bandiera e la propria ispirazione nelle imposizioni nelle aree sotto il proprio controllo. Prossimo obiettivo del presidente turco è quello di fornire alla Somalia una flotta di jet da guerra, destinati a divenire un fattore determinante nel controllo delle vastissime aree rurali del Paese africano.

(Agi)

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