Silvia Romano, assieme a chi l’ha liberata, ha un merito immenso. Da sabato sera ci ha fatto dimenticare almeno un po’ il dolore lancinante dei morti da coronavirus (anche ieri troppi: 179).
E ha fatto esplodere una vera e grande gioia in tanti italiani. La maggioranza, si può starne certi. Una maggioranza trasversale, a età e opinioni, e altrettanto vera e grande che la gioia. Gioia per una figlia ritrovata, come ha detto con cuore di padre, e perfetta sintesi evangelica e umana, il cardinale presidente della Cei Gualtiero Bassetti. Una figlia provata, e anche velata per una «conversione all’islam» raccontata come parte integrante del dramma da cui sta uscendo, eppure solare e italianissima nell’abbraccio ai familiari e nel saluto senza impacci alle autorità e a quanti, domenica, al primo arrivo dalla terra della prigionia, la Somalia, l’hanno accolta a Ciampino e, ieri, nella “sua” Milano.
Silvia Romano, proprio lei, però ha anche torto. E non uno solo, ma ben quattro. Quali? Bisogna leggere o riascoltare – facendosi forza, e resistendo alla tristezza e all’indignazione – quelli che hanno fatto di tutto per prendersi la ribalta a strepiti e sputi (anche di carta) e hanno dato il “la” alla gazzarra digitale dei social che, dopo i giorni della solidarietà di fronte al martello invisibile del Covid-19, sono apparsi violentemente “riconvertiti”, essi sì, al dilagare dell’odio e dello sberleffo atroce. Si sono presi una pesante responsabilità questi propagandisti del niente travestito da valori forti, e prima poi troveranno un specchio davanti al quale vergognarsi.
Per costoro, il primo torto della cooperante milanese è di essere tornata viva.
Il secondo è di aver fatto tutto ciò che ha ritenuto necessario per non soccombere.
Il terzo è di essere partita per l’Africa.
Il quarto è di essere una donna, perché soprattutto le donne stanno a casa propria e non vanno a cercarsi guai a casa d’altri, e per di più “a casa loro”…
Sono torti che si ritorcono su chi li immagina. E l’ordine non è casuale.
Il primo è infatti il “motore” di tutto. Se Silvia fosse tornata in una bara, nessuno di quei signori avrebbe scatenato l’inferno delle parole senza grazia e senza pietà. E se di lei, ancora per parecchio, non si fosse saputo niente o non abbastanza, nessuno di quegli autoproclamati difensori dello spirito dell’Occidente e – pensate un po’ – del Cristianesimo avrebbe avuto qualcosa da ridire e qualcosa per cui pregare.
L’Occidente della libertà e del rispetto, la Parola che è Cristo e che illumina e cambia la vita sono un’altra cosa.
Per questo, e in nome di questo, è giusto anche farsi domande su ciò che a Silvia è accaduto e sul cambiamento che ha mostrato. Ma domande, decenti e pazienti, non insulti. Non processi di piazza e di arena. E soprattutto gioia. Gioia per questa figlia che, comunque ora si faccia chiamare, è sempre figlia.
(Avvenire)