Belle le lacrime della ministra Teresa Bellanova, mercoledì sera, dopo l’approvazione delle misure per la regolarizzazione di migliaia di lavoratori stranieri.
Belle perché testimoni della capacità di moti dell’anima intensi anche in una politica (e sindacalista) di lungo corso, che si direbbe avvezza per vita e professione a momenti ‘forti’. Belle perché sospinte da profonda partecipazione per un traguardo duramente raggiunto, che si tradurrà in una chance di vita alla luce del sole per chi, come lei stessa ha sperimentato da giovane, si spezza la schiena per due soldi trasferiti sottobanco, come elargizione. Lacrime di ministra, lacrime liberatorie perché per la liberazione dall’oscurità e, spesso, anche dallo sfruttamento di centinaia di migliaia di persone in carne e ossa.
In molti hanno evocato il pianto di Elsa Fornero, ministra del governo Monti che non si trattenne mentre illustrava una riforma delle pensioni che comportava dolorosi tagli. Se quelle di Elsa Fornero furono di sofferta partecipazione per il sacrificio richiesto agli italiani e furono prontamente bollate come lacrime di coccodrillo e mai perdonate, le lacrime di Teresa Bellanova sono state di commozione per il riconoscimento di un diritto che dovrebbe stare a cuori a tutti. Eppure anche lei è stata duramente attaccata da avversari politici perché «ha pianto per gli stranieri anziché per gli italiani».
Alle donne spesso capita di essere giudicate e criticate per motivi diversi, quasi sempre irrilevanti, da quelli per i quali si giudicano e si criticano gli uomini: nel suo caso, accadde per il vestito blu elettrico indossato alla cerimonia di giuramento da ministra, per il suo titolo di studio, ora per il pianto. Anche alcune donne hanno dissentito, osservando che così si rafforza lo stereotipo secondo il quale le donne sono più emotive e irrazionali degli uomini. Eppure, a guardare bene, questo ragionamento si basa su un altro stereotipo: e cioè che l’emotività sia un difetto, il vissuto personale – Bellanova è stata una bracciante, conosce le fatiche dai campi – un fardello, l’essere donna un accidente ininfluente. E invece no: le differenze esistono, uomini e donne non sono uguali, portano in famiglia, sul lavoro, nelle carriere, la personalità, il carattere, le esperienze che realisticamente non prescindono dal genere di appartenenza.
Non si tratta della commozione in sé, della lacrima più o meno facile: come ha scritto la stessa Bellanova in un post su Facebook, «le lacrime non hanno genere», perché «si commuovono anche gli uomini». Loro però «se ne vergognano». Benvenute, allora, le lacrime senza vergogna di Teresa Bellanova: sono indice di un cuore capace di emozionarsi per un traguardo anche piccolo, se sentito come giusto e duramente ottenuto (perché non si può dire che la regolarizzazione contenuta nel Dl Rilancio sia un provvedimento epocale), di vivere la lotta politica non come banale conquista del potere ma come servizio alle comunità più fragili. E quel servizio può commuovere, se vissuto con l’interezza del proprio essere. Orgogliosamente commuovere. Non è debolezza, è forza. È una carta in più, non una in meno: vuol dire averci creduto fino a soffrirne. E dunque, a costo di essere tranchant, vogliamo dirlo: quelle di Teresa Bellanova sono lacrime di donna. Forti, fortissimamente femminili. Di chi vede l’esercizio del potere in maniera libera, senza necessariamente replicare (come spesso accade alla leadership ‘rosa’) modelli maschili. Libere lacrime, lacrime di forza e non di debolezza, lacrime senza vergogna.
(Avvenire)