Il cosiddetto «Decreto Rilancio» assomiglia un po’ a un intervento di «terapia intensiva»: provare a dare ossigeno a un corpo logorato dall’apnea. E non poteva che essere così. Nello stesso tempo, bisogna dircelo, non «chiude i giochi»
Il cosiddetto «Decreto Rilancio» non rilancia un bel niente, tampona. Non è proiettato verso il futuro, a disegnare le linee di un qualche New Deal.
È ancorato al passato prossimo, alla necessità di riempire in qualche modo le buche scavate nel corpo sociale e produttivo dalla pandemia.
Assomiglia un po’ a un intervento di «terapia intensiva»: provare a dare ossigeno a un corpo logorato dall’apnea.
E non poteva che essere così.
Nello stesso tempo, bisogna dircelo, non «chiude i giochi». Valutarlo come se fosse un finale di partita sarebbe sbagliato. Non è che l’inizio – la prima mossa – di un braccio di ferro che sarà lungo.
E di cui fin da questi preliminari è possibile vedere gli schieramenti in campo e i loro rapporti di forza, che non sono – anche qui non dobbiamo raccontarcela – favorevoli.
Tutt’altro, con una Confindustria famelica e all’assalto, che nelle settimane più feroci del contagio ha dato il peggio di sé, pensando solo ed esclusivamente ai propri interessi, pronta a sacrificare salute e vite di lavoratori e cittadini, senza un’idea per il bene comune, un’offerta di prodotti e servizi, una parola di comprensione per i sacrifici altrui, e che oggi vorrebbe tutto, tutte le risorse disponibili, tutta l’immunità necessaria, tutti gli omaggi che i servi debbono ai padroni.
E, dall’altra parte, con un mondo del lavoro che in questi due mesi ha tenuto in piedi il Paese.
Pagando un prezzo durissimo in salute e fatica. Che mentre tutti erano segregati in casa è stato mandato al fronte, negli ospedali come nelle fabbriche e sulle strade, lungo le filiere della produzione e della logistica.
E per questo giustamente pretende quanto gli compete, non solo in termini di reddito e di garanzia, ma di riconoscimento sociale. Ma che soffre una debolezza strutturale nei meccanismi della sua rappresentanza e nella difficoltà a trovare forme di organizzazione e di lotta adeguate.
Il decretone riflette questi equilibri (o squilibri).
Da una parte mette in campo una quindicina di miliardi per l’«assistenza», chiamiamola così: ammortizzatori sociali, cassa integrazione, reddito di emergenza, bonus vari. Un po’ meno di un terzo del suo ammontare.
Assai meno di quanto sarebbe necessario (in particolare il reddito di emergenza è poco più che un obolo caritatevole). Ma molto di più di quanto Confindustria e soci avrebbero voluto concedere, nel tormentone ripetuto fino alla noia che chiede tutto per la «crescita» (cioè per lorsignori) e nulla per l’«assistenza», cioè cittadini e famiglie, e sbraita contro le spese «a pioggia».
Se alla fine ha prevalso questa soluzione non è per sensibilità sociale, è per paura: l’atavico terrore di tutte le classi dominanti per l’anomia, l’illegalità diffusa, la microcriminalità dei non criminali, il furto per bisogno, la delinquenza degli onesti che senza quella pioggerella di reddito dilagherebbero.
Il virus, come il luminol dei carabinieri dei Ris sulla scena del delitto, ha rivelato le macchie di sangue che l’emergenza sanitaria ha lasciato nel tessuto sociale. Le sacche di nuova povertà diventata miseria. Quei 15 miliardi sono un atto dovuto per disinnescare la rabbia sociale prodotta dall’impoverimento.
Poi ci sono un’altra quindicina di miliardi per le imprese: 10 per le piccole (sotto i 5 milioni di fatturato), a fondo perduto. 4 per le medie (fino a 250 milioni di fatturato) con taglio dell’Irap: ed è la parte più indigesta, nella linearità del meccanismo che accanto a chi ha davvero perso premia anche chi ha guadagnato in questi mesi, e ce ne sono. Infine i prestiti di Cdp per le grandi, con un generico ingresso temporaneo dello Stato nella governance, che bisognerà vedere se formale e meno.
Poi ci sono gli «investimenti» veri e propri: i 3 miliardi e mezzo per la sanità – soprattutto il ripristino di quella territoriale e i posti in rianimazione, con 9.600 assunzioni d’infermieri – e quelli per scuola e ricerca, compresa l’Università.
La parte più promettente, anche se insufficiente, perché quella che aggetta sul futuro. Che può, per ora come un semplice cartello segnaletico, anticipare una qualche correzione di linea nella direzione auspicata dal documento «Democratizing work» pubblicato da il manifesto ieri. Giusto un possibile presagio, da presidiare senza sconti.
Di qui si partirà, quando da Bruxelles si capirà quanto (e come) l’Europa saprà mettere sul tavolo della propria salvezza.
E sarà quella la vera partita. Sarà quel flusso di risorse e il modo della loro «distribuzione» a dirci se sarà tutto come prima, o se cambiare (almeno qualcosa) si può. E su questo piano qualcosa di ciò che ci aspetta ce l’hanno fatto già capire.
La proposta indecente di Fca per accaparrarsi 6 miliardi di liquidità «nazionale» con garanzia di quello Stato da cui sono fuggiti, in un paradiso fiscale, per non pagare il dovuto, la dice lunga dello spirito predatorio con cui il grande padronato sta preparando la partita. Non faranno sconti né prigionieri. Faranno di tutto – passata la paura – perché nulla sia diverso da prima – il che significa che tutto sarà peggiore.
Prepararsi ad affrontarli significa, dall’altra parte, avere il coraggio di cambiare, davvero tanto. Di puntare alto, e forte. Di ridare fiato alla contrattazione e al conflitto puntando su processi diffusi di democratizzazione e di auto-organizzazione che sappiano raccogliere la forza di un mondo del lavoro giustamente orgoglioso del proprio ruolo e dei crediti accumulati in questi anni.
(Marco Revelli – Il Manifesto)