“I ricchi devono pagare le tasse. Le leggi sono molto chiare e loro usano ogni modo possibile per sfuggire e portare il denaro nei paradisi fiscali. Dobbiamo rafforzare i controlli”.
Così si era espresso il segretario generale dell’Ocse, Josè Angel Gurria, durante il Forum di Davos del gennaio scorso. Per risolvere almeno una parte del problema, sarebbe bastata una semplice perquisizione della platea che lo stava applaudendo, ma tant’è…
Secondo dati aggiornati al 2016, la ricchezza individuale nascosta nei paradisi fiscali è pari a 7.500 miliardi di euro, di cui 1.500 appartenenti a cittadini e famiglie europee, corrispondenti al 10% del bilancio dell’Unione Europea.
In testa a questa vergognosa classifica continentale, svetta la Germania (331 mld) seguita da Francia (277mld), Gran Bretagna (218 mld) e Italia (142 mld). Una somma che, per il nostro Paese, equivale all’8,1% del Pil.
Sono dati che evidenziano l’enormità del problema, ma che ancora non ne rivelano gli aspetti più paradossali. Uno di questi è il fatto che interi Paesi dell’Unione Europea “mostrano tratti di paradisi fiscali e facilitano una gestione fiscale aggressiva”, secondo l’edulcorata definizione adottata dalla Commissione speciale Ue sui crimini finanziari TAX3: si tratta di Belgio, Cipro, Irlanda, Lussembirgo, Malta, Olanda e Ungheria.
Di cosa stiamo parlando? Gli inglesi lo chiamano profit-shifting, è il meccanismo con cui le aziende internazionali riescono a spostare i loro redditi negli Stati dove le tasse sono più basse, sfruttando una serie di escamotage legali e finendo per pagare quasi nulla di imposte.
A causa di questa enorme elusione fiscale, l’Italia perde il 19% delle entrate tributarie dalle proprie imprese, circa 7,5 miliardi di euro ogni anno.
Ma chi, tra i capitani coraggiosi dell’industria nostrana, quella che ogni giorno tuona per avere tutti per sé i soldi della ripresa post-pandemia, utilizza questi canali per sottrarre risorse alla ricchezza collettiva? Praticamente tutti.
Prendiamo ad esempio l’Olanda,
che ad ogni riunione dell’Eurogruppo fa la voce grossa contro ogni, pur minimo, strumento di condivisione del debito e delle risorse da mettere a disposizione per far fronte all’emergenza da Covid19: qui hanno trasferito sede legale/fiscale FCA, Ferrari, Exor, Mediaset, Luxottica, Ferrero, Illy, Telecom Italia, Prysmian, Cementir e, a breve, le raggiungerà Campari (può mancare un aperitivo ai soldi sottratti alla collettività?).
E qui hanno trasferito la sede persino alcune società partecipate dallo Stato (attraverso Cassa Depositi e Prestiti): Eni, Enel e Saipem (con buona pace di tutti i sovranisti che vedono lo Stato come protettore, ecco un bell’esempio di Stato che sottrae risorse alla collettività).
Nessuno può tuttavia accusare queste eccellenze del capitalismo italiano di esterofilia, perché, come avviene per ogni relazione umana, è nei momenti più difficili che si ricorre agli affetti più duraturi. Così ha fatto FCA, che, appena letto il decreto Rilancio del governo Conte, ha chiesto un finanziamento di 6,3 miliardi di euro a totale garanzia dello Stato italiano.
“Si tratta di un prestito, restituiremo tutto!”, si sbracciano a spiegare i dirigenti dell’azienda sostenuti da una stampa divenuta unanime (anche nella proprietà, che, guarda caso, coincide con quella dell’azienda in oggetto).
Ma intanto lo Stato impegna 6,3 miliardi di garanzie – che quasi sicuramente dovrà sborsare – per un’impresa italiana che, al momento di contribuire alla ricchezza collettiva del Paese, improvvisamente parla olandese.
Inutile girarci intorno: siamo entrati nella fase in cui le imprese hanno deciso di utilizzare l’emergenza per drenare nuove risorse dalla società e rimpinguare i loro profitti.
Uscire dal lockdown politico diventa sempre più urgente.
(di Marco Bersani, Attac Italia)