Sempre meno pazienti ricoverati: effetto lockdown o siamo di fronte a un ceppo ‘light’? Gli esperti, da Capua a Lopalco, da Maga a Caruso, da Bassetti a Crisanti, restano divisi
Il virus che ha messo in ginocchio il pianeta sta diventando più “buono”? Il dubbio serpeggia da settimane nel mondo scientifico come un mantra, a metà tra constatazione empirica e speranza. Da alcuni giorni l’ipotesi però viene rilanciata con maggiore insistenza dagli esperti, soprattutto quelli ancora in trincea, alle prese con i malati: “Qualcosa sta succedendo”, si sente ripetere sempre più spesso.
I positivi in genere arrivano in ospedale in condizioni migliori, e con prognosi decisamente più favorevoli. Di sicuro fanno riflettere due dati: i dati fino alla giornata di giovedì 28 maggio raccontano che la percentuale dei ricoverati in Italia rispetto al totale dei malati Covid ancora attivi è del 15,17%. Il 6 marzo era del 61,13%.
E, ancora più importante, le terapie intensive occupate,
scese da oltre 4.000 a poco più di 500, sono oggi appena lo 0,99% del totale dei malati, contro l’11,8% del 6 marzo. Numeri che, a parità di casi, lascerebbero propendere per un’attenuazione degli effetti devastanti del virus, anche se non tengono conto di numerose variabili, a partire da quella temporale: non sappiamo quando i 51mila attuali malati si sono contagiati, è un calderone dove entrano persone che si sono ammalate un mese fa e altre il cui tampone positivo è arrivato solo mercoledì.
Sul tema, come accaduto spesso dall’inizio della pandemia, il mondo scientifico si divide.
C’è chi sostiene che il crollo dei ricoveri e delle terapie intensive (seguito, più lentamente, da quello dei decessi) sia dovuto esclusivamente all’effetto del lockdown: ci sono meno malati gravi perché ci sono meno malati tout court. Chi punta su un miglioramento nelle terapie.
C’è poi la convinzione in molti che il caldo giochi un ruolo importante, e che le temperature, assieme all’uso massiccio delle mascherine, siano la spiegazione della ridotta carica virale. Ma c’è anche la tesi più estrema, ossia che il Sars-CoV-2 sia proprio mutato geneticamente, in tempi record, continuando a circolare in una versione “light”.
Il sasso nello stagno lo ha lanciato nei giorni scorsi Arnaldo Caruso, presidente della Società italiana di virologia:
“Sì, il nuovo coronavirus sta perdendo forza“,
ha annunciato, dopo che nel laboratorio di Microbiologia dell’Asst Spedali Civili a Brescia, da lui diretto, è stata isolata una variante “estremamente meno potente, più ‘buona’. Mentre i ceppi virali che siamo stati abituati a vedere in questi mesi, che abbiamo isolato e sequenziato, sono bombe biologiche capaci di sterminare le cellule bersaglio in 2-3 giorni, questo per iniziare ad attaccarle ha bisogno minimo di 6 giorni, il doppio del tempo”.
È d’accordo Matteo Bassetti, direttore del dipartimento Malattie Infettive del San Martino di Genova: “Il nuovo coronavirus è diventato più buono e questo è un dato di fatto”, sottolinea proprio in un’intervista a ‘La Nazione’, ‘Il Giorno’ e ‘Il Resto del Carlino: “Qui a Genova, ospedale San Martino, da un mese nessuno è stato più ricoverato in rianimazione per Covid-19. Vediamo persone di 80, 90 anni che sopravvivono con il virus. Casi identici 2 mesi fa morivano nel giro di 4 o 5 giorni”.
Anche il virologo Guido Silvestri, docente alla Emory University di Atlanta, sposa questa tesi nelle sue ‘Pillole di ottimismo’ diffuse quotidianamente su Facebook, puntando proprio sul rapporto malati/ricoverati: “Siccome a me piacciono i numeri e i dati – spiega – sono andato un pochino a sfruculiare nei dati pubblici della Protezione civile. Così ho ‘plottato’ per il periodo dal 29 febbraio al 17 maggio il rapporto in percentuale tra pazienti in terapia intensiva per Covid-19 e totale casi positivi”.
Rilevando come “questo valore, che uso come indice crudo della gravità clinica ‘media’ dei casi di infezione con Sars-CoV-2”, sia stato “intorno all’8-10% per i primi 20 giorni dell’epidemia”, iniziando poi a “calare regolarmente: al momento è 1,1% (oggi, come detto, è sceso ancora, allo 0,9%, ndr). Questi sono numeri e su questi non si discute”.
Segnali in questo senso vengono riferiti anche, a proposito di medici “in trincea”, da Francesco Vaia, direttore sanitario dello Spallanzani, che all’AGI nei giorni scorsi affermava: “È corretto dire che i nuovi pazienti hanno sintomi più lievi. Da un punto di vista dell’osservazione è giusto dire così, ma dobbiamo capire, dobbiamo studiare questo dato. Probabilmente, come in tutte le fasi epidemiche, nella coda dell’epidemia assistiamo a una riduzione della virulenza. Però queste sono tutte osservazioni che facciamo oggi ad alta voce, ma che dovranno avere poi una base scientifica. Oggi possiamo dire che sulla base delle osservazioni i nuovi pazienti hanno sintomi più lievi, ma si tratta di un dato empirico e non scientifico”.
E secondo Massimo Clementi, direttore del laboratorio di microbiologia e virologia dell’ospedale San Raffaele di Milano, addirittura il virus “potrebbe diventare un raffreddore, la malattia si sta modificando, sta perdendo la sua potenza”.
Tesi su cui insiste da settimane, tra i primi in Italia, l’epidemiologo Massimo Ciccozzi del Campus Biomedico di Roma, che in una recente audizione in Commissione Igiene e Sanità del Senato ha ribadito: “Stiamo osservando che il virus di Covid-19 sta perdendo potenza. Sta continuando a mutare. Ma sta facendo mutazioni che a lui non sono più utili“. Evolve ma perde “contagiosità e, probabilmente, letalità”.
Di contro, non è da meno il fronte dei possibilisti in attesa di pubblicazioni scientifiche che confermino o smentiscano queste ipotesi. È il caso di Giovanni Maga, direttore del laboratorio di Virologia Molecolare presso l’Istituto di Genetica Molecolare del CNR di Pavia: “Quello che si vede in generale dal confronto delle sequenze genetiche – dice all’AGI – non sembra suggerire grossi cambiamenti, ma è anche vero che quello che può succedere, e magari sta anche succedendo, è che una notevole circolazione del virus in un numero elevato di soggetti possa portare alla selezione di varianti meglio adattate”.
E ancora: “Quindi ci potrebbe anche stare che nel corso di un’epidemia ci possano essere delle varianti meno aggressive. Io non ho ancora trovato nessun dato oggettivo e riprodotto della circolazione di virus meno aggressivi”, conclude, ribadendo però che “l’impressione generale è che la sintomatologia generale sia meno aggressiva”.
Prudente anche Pierluigi Lopalco, epidemiologo presso l’Università di Pisa: “Non abbiamo ancora evidenze scientifiche che supportino l’ipotesi dell’indebolimento del virus – commenta con l’AGI – il dato di fatto però è che l’epidemia sia in calo. Stiamo assistendo a una diminuzione dei contagi, le campagne di screening hanno permesso l’identificazione di casi lievi o asintomatici di malattia che potrebbero non essere contagiosi o al più presentare una carica virale molto bassa. I pazienti documentati sono inoltre molto meno gravi rispetto a qualche tempo fa, e tutto ciò è evidente dal numero di ricoveri, che è pressoché nullo. Questo è il dato di fatto, che però non siamo ancora in grado di spiegare con accuratezza scientifica, possiamo solo fare ipotesi”.
Ma non è meno prestigioso il fronte del “no”, a partire dalla virologa Ilaria Capua, che lo scorso martedì su La7 ha sostenuto: “Che io sappia i virus che stanno circolando adesso non hanno mutazioni che possano dirci se sono più o meno aggressivi. Ed è per questo che chiediamo le sequenze. Il virus non andrà via, ha trovato una nuova popolazione: siamo noi, circola all’interno della nostra popolazione provocando danni molto gravi in alcune parti del nostro paese e in alcune grandi città europee e non europee, dove la situazione è più complicata rispetto a quanto accade in altre, anche per il fattore inquinamento”.
Ancora più tranchant Andrea Crisanti, direttore di Microbiologia e Virologia all’Università di Padova: “Non c’è nessuna evidenza sperimentale. Un virus non è debole, forte, buono o cattivo, un virus è più o meno virulento e ha una capacità di trasmissione che si può misurare. Il resto sono stupidaggini”.
Peraltro, ha ricordato intervenendo ad Agorà su RaiTre, “sulla base di evidenze sperimentali fatte su grandi modelli si dimostra che quando un virus entra in una nicchia ecologica, che siamo noi, la virulenza in genere aumenta invece di diminuire. Il fatto che oggi si vedano casi meno gravi è esclusivamente dovuto ad una diminuzione della carica virale in gran parte legato all’uso delle mascherine. Perché se io uso la mascherina, il mio interlocutore usa la mascherina, la quantità di virus che ci trasmettiamo è molto più bassa”.
Sul virus “buono” “non ci sono evidenze scientifiche – ha ribadito anche Massimo Andreoni, direttore scientifico della Società italiana di malattie infettive – singoli casi sono interessanti ma non fanno la regola, il virus resta estremamente pericoloso”.
Voci discordanti, insomma, in attesa di studi validati e pubblicati che possano scandagliare meglio il virus e le sue eventuali varianti più “buone”, che se anche fossero confermate, e qui gli esperti sono unanimi, non devono diventare un alibi per allentare l’attenzione sui comportamenti individuali.
(Agi)