24 Novembre, 2024
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Allarme di Confcommercio: il 28% delle imprese che ha riaperto è a rischio chiusura

Da un’inchiesta emerge che l’82% delle Pmi sono ripartite, ma nella ristorazione si è persa un’azienda su 4. Sangalli: il pericolo è una tempesta perfetta.

Per il 28% delle imprese che hanno riaperto, rimane elevato il rischio di chiudere definitivamente a causa delle difficili condizioni di mercato, dell’eccesso di tasse e burocrazia, della carenza di liquidità: è quanto emerge da un’indagine di Confcommercio, in collaborazione con Swg, svolta sulle prime due settimane di riapertura per le imprese dei settori ristorazione e bar, abbigliamento, altre attività del commercio al dettaglio e dei servizi.

Delle quasi 800 mila imprese del commercio e dei servizi di mercato che sono potute ripartire, a due settimane esatte dalla Fase2, l’82% ha riaperto l’attività, il 94% nell’abbigliamento e calzature, l’86% in altre attività del commercio e dei servizi e solo il 73% dei bar e ristoranti, a conferma delle gravi difficoltà delle imprese impegnate nei consumi fuori casa; tra le misure di sostegno ottenute, il 44% delle imprese ha beneficiato di indennizzi, come il bonus di 600 euro, ma è ancora estremamente bassa la quota di chi ha ottenuto prestiti garantiti o fruito della cassa integrazione; e oltre la metà delle imprese stima una perdita di ricavi che va dal 50 fino ad oltre il 70%.

Il rischio dei prestiti per le piccole aziende

Infatti, rileva Confcommercio, solo due quinti delle micro-imprese presenta addetti e, quindi, solo questa frazione avrebbe avuto necessità della CIG in deroga. Letto in questi termini il dato del sondaggio appare verosimile (49% accede alla misura e l’ha ottenuta oppure deve ancora ottenerla). Specularmente, il ricorso a ulteriori prestiti è prevedibilmente piuttosto rarefatto.

Le imprese di minori dimensioni, avendo perso per oltre 2 mesi quasi il 100% del fatturato non hanno convenienza a contrarre ulteriori prestiti i quali andrebbero ripagati con un reddito futuro la cui formazione appare oggi molto incerta. è logico aspettarsi che un eventuale maggiore sostegno attraverso gli indennizzi possa spingere anche a un maggiore ricorso ai prestiti con garanzia pubblica, perchè risulterebbe meglio compensata la perdita fino ad oggi subita. Purtroppo, le valutazioni conclusive sono fortemente negative.

Fin qui, nell’esplorazione delle due indagini, svolte a distanza di una settimana, emerge una significativa oscillazione dei giudizi tra la voglia di tornare a fare business e percezioni piuttosto cupe sull’andamento dei ricavi, prosegue l’indagine, il tutto condito da un esplicito orientamento delle imprese volto a smussare l’impatto delle difficoltà e dei problemi.

Ma se nella prima settimana solo il 6% degli intervistati indicava un’elevata probabilità di chiusura dell’azienda, nella seconda ondata di interviste, a fronte di un ragionamento più articolato, il 28% degli intervistati afferma che, in assenza di un miglioramento delle attuali condizioni di business, valuterà la definitiva chiusura dell’azienda nei prossimi mesi. A corroborare questa suggestione, dice Confcommercio, intervengono i timori che nel prossimo futuro si dovrà comunque richiedere un prestito (50% del campione), non si sarà in grado di pagare i fornitori (40%) nè di sostenere le spese fisse (43%).

Il dilemma dell’equilibrio economico da mantenere

Emerge, quindi, con sufficiente nitidezza, uno dei più rilevanti problemi per le singole imprese e per l’economia italiana nel complesso: la vera questione non è riaprire subito o dopo un breve periodo di sperimentazione, bensì la capacità, la possibilità, di restare aperti, cioè di raggiungere un equilibrio economico soddisfacente (assieme a un flusso di cassa che permetta di sostenere almeno i costi fissi). Sotto il profilo macroeconomico, il peggio è certamente passato. Tuttavia, avverte Confcommercio, per molte imprese, concentrate in pochi settori a cominciare dalla filiera turistica, le sfide per la sopravvivenza si combatteranno nei prossimi mesi.

I dati dell’indagine, riporta un comunicato, riferiti ad un universo di 759mila imprese (prevalentemente micro-imprese fino a 9 addetti), indicano come sia senz’altro favorevole la circostanza che le aperture crescano dalla prima alla seconda settimana, ma costituisce un segnale negativo, invece, che il 18% delle imprese che potevano riaprire non l’abbia ancora fatto (tab. 1); questa percentuale sale al 27% nell’area bar e ristoranti, un dato che testimonia una conclamata patologia da cui non siamo affatto usciti.

I motivi della mancata riapertura riguardano soprattutto l’adeguamento dei locali ai protocolli di sicurezza sanitaria. In generale, prosegue Confcommercio, tra le imprese che hanno riaperto, la gestione dei protocolli di igienizzazione-sanificazione e la riorganizzazione degli spazi di lavoro sono state condotte con successo e senza particolari difficoltà, sebbene nella seconda settimana emerga qualche problema aggiuntivo rispetto alla settimana precedente, a conferma dell’impressione che la voglia di riaprire implichi, in qualche caso, una comprensibile sottovalutazione di alcune difficoltà.

Un giro d’affari ‘ampiamente insufficiente’

Le dolenti note emergono dall’autovalutazione degli intervistati sul giro d’affari, si legge: già nella prima settimana la media dei giudizi si collocava largamente al di sotto della sufficienza. Nella settimana successiva questi timori si confermano: il 68% degli imprenditori dichiara che i ricavi delle prime due settimane sono inferiori alle aspettative, quando già le aspettative stesse erano piuttosto basse. La stima delle perdite di ricavo rispetto ai periodi “normali” per oltre il 60% del campione è superiore al 50%, con un’accentuazione dei giudizi negativi nell’area dei bar e della ristorazione, segmento dove si concentrano maggiormente perdite anche fino al 70%.

L’accesso ai provvedimenti di sostegno riflette le problematiche delle micro-imprese durante il lockdown. Gli indennizzi (come il bonus dei 600 euro) sono ovviamente i più diffusi e ne avrebbe fruito già il 44% delle imprese del totale campione. La cassa integrazione appare, invece, sottoutilizzata in ragione della distribuzione delle imprese per numero di addetti schiacciata verso le ditte individuali.

(Agi)

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