Gli echi e le immagini che arrivano dagli Usa si allargano anche nell’emisfero sud del Continente.
Il tema della lotta al razzismo, soprattutto delle violenze della polizia sulle persone di colore, emerge dal letargo di una consuetudine che non fa più notizia. Forse qualcosa sta cambiando. Dalla Colombia e dal Brasile arrivano due denunce per due omicidi da parte di agenti che riguardano ragazzi dalla pelle scura. Giovani di discendenza africana che si sono trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Il primo racconta la morte di Anderson Arboleta, 21 anni, picchiato selvaggiamente da un gruppo di poliziotti mentre stava rientrando a casa a Puerto Tejada, nel dipartimento di Cauca, nord ovest della Colombia.
La sua storia è venuta a galla grazie al web dove sono state pubblicate diverse testimonianze di numerosi artisti e cantanti, come Goyo, del gruppo Choc Quib Town. Anderson stava rientrando a casa alle 22:30 di sera dopo essere andato a comprare alcune cose che servivano alla sua famiglia. Una pattuglia lo ha sorpreso proprio sulla porta d’ingresso, gli ha contestato la violazione del coprifuoco imposto per il Covid-19 e ha cominciato a picchiarlo con i manganelli.
Il giovane non aveva precedenti, era un soldato, stava ultimando il servizio di leva, gli mancavano due mesi.
A nulla sono valse le grida e le proteste dei familiari che nel frattempo, per il trambusto, avevano aperto la porta assistendo al pestaggio. Ferito e dolente, il giovane ha deciso di andare in commissariato per denunciare quanto era accaduto. Ma qui, secondo quello che ha poi raccontato, ha subito un secondo, brutale pestaggio. E’ rientrato a casa, si è messo a letto, ha cominciato a sentirsi male. Lo hanno portato in ospedale dove è morto.
Il referto parla di trauma cerebrale.
La vicenda è finita sui giornali, la popolazione è scesa in piazza chiedendo giustizia. Una zia, Miriam, testimone della violenza, ha spiegato cosa era successo. “Un pestaggio assurdo, non gli hanno nemmeno dato il tempo di aprire la porta di casa”, ha detto, “non si capisce perché si debba usare tanta violenza nei confronti dei giovani. E’ inaudito quello che è successo. Non vogliamo che altre madri siano costrette a sotterrare i loro figli”. Maria Lady Montaño, altra zia di Anderson, ha spiegato al settimanale Semana, che “quando è arrivato al commissariato, mio nipote era cosciente. Il comandante è rimasto sorpreso delle cose che dicevamo. Sosteneva che i suoi agenti erano seri e che non si abbandonavano a questi eccessi. Ha categoricamente escluso che fosse stato vittima di violenze”. Ci sarà un’autopsia, la magistratura ha aperto un’indagine, vuole vederci chiaro.
Tutto questo accadeva il 19 maggio scorso.
Dieci giorni dopo, nella favela del Complexo do Salgueiro di São Gonçalo, a Rio de Janiero, un ragazzino di 14 anni cade colpito dai proiettili sparati dalla polizia mentre si trova in casa.
Gli agenti stanno compiendo una delle tante incursioni per snidare trafficanti e spacciatori. L’operazione è una battaglia: si sparano raffiche in tutte le direzioni, elicotteri volteggiano guidando le squadre, si sentono le esplosioni delle granate. Un vero inferno. João Pedrito sta andando verso la casa della cuginetta. Ci arriva e trova sei bambini, terrorizzati. Tutti sanno cosa sta per accadere e giustamente temono di essere coinvolti. Lo sa anche la zia che corre disperata verso casa per mettere al riparo il nipote, i figli e gli altri.
Le squadre dei corpi speciali avanzano sparando all’impazzata. La casa della zia del giovane João è sforacchiata dai colpi.
“Le finestre erano in frantumi, il televisore spaccato a terra, il salotto, la camera da letto, i materassi, le tende, le sedie, il tavolo, tutto era sfasciato…”, ha raccontato ai giornali la zia, Denise Roza Matos Pinto quando gli agenti le hanno consentito di entrare. Sono stati contati oltre 70 fori di proiettile. “Fuori, l’erba del prato era bruciata dalle granate che avevano lanciato. Ho guardato all’interno, verso il salotto, c’era una larga macchia di sangue, dove poco prima, mi dicevano i miei figli, c’era João. Ma lui era sparito”.
I militari hanno raccolto il corpo del ragazzo e con l’elicottero lo hanno trasferito in ospedale. Quasi di nascosto, senza dire nulla alla donna. I parenti lo hanno rintracciato il giorno dopo all’obitorio del nosocomio grazie al web e alle voci che giravano nella favela. Morto. João era un giovane di colore come lo sono 8 su 10 vittime per mano della polizia. E questo ha finito per infiammare le proteste che sono subito esplose in molti quartieri di Rio. “Piaccia o meno”, commenta a Oglobo la zia Denise, “c’è un lato razziale in tutto questo. Non dovrebbe essere così. Dovremmo essere tutti uguali. Invece, quando la polizia ferma e sale su un autobus la prima cosa che fa è cercare quelli di colore. Se sei nero e corri, sei colpevole. Se capiti in un posto sbagliato e sei nero finisci nel mirino. Siamo stanchi di assistere a queste scene”.
Il quartiere è sceso ancora due giorni fa per le strade tra cartelli e grida che ricordavano: “La vidas negras importam”, anche le vite dei neri sono importanti. Nel 2019 solo a Rio sono state uccise 1.810 persone dalla polizia, cinque al giorno: il 75 per cento era di pelle scura.
(La Repubblica)