Pubblichiamo un testo scritto dalla senatrice a vita e indirizzato agli studenti che si apprestano a fare un “particolarissimo esame di maturità”
Care ragazze, cari ragazzi,
vi accingete a sostenere un particolarissimo esame di maturità, dopo un anno scolastico che, a causa dell’epidemia che ha sconvolto le nostre vite, ha richiesto a tutto il mondo della scuola di riorganizzarsi, di adottare nuovi strumenti, di abituarsi a una diversa gestione del proprio tempo, di adattarsi a nuove necessità.Come tanti Robinson Crusoe, voi e i vostri insegnanti avete dovuto superare tante difficoltà per riuscire a far vivere la scuola anche stando ciascuno sulla propria isola: non un’isola deserta, ma un appartamento magari affollato e non sempre adatto per le lezioni a distanza.
Come tutte le nonne, anch’io inevitabilmente corro col pensiero a tempi molto lontani, alla mia scuola, alla mia maturità. Anch’io arrivai a quell’esame dopo un percorso accidentato e complesso.
Nel 1938 le leggi razziali mi impedirono di frequentare la mia scuola elementare pubblica e dovetti terminare le elementari in una scuola privata.Poi arrivò la guerra e per sfuggire ai bombardamenti la mia famiglia si trasferì in un paese della Brianza dove le scuole medie erano solo statali, per cui io – in quanto ebrea – rimasi esclusa.
Poi arrivarono gli anni orribili della fuga, del carcere, della deportazione.A 15 anni, sopravvissuta per caso, avevo saltato tutti quegli anni scolastici ed avrei dovuto ricominciare dalle medie. Ma non me la sentivo: a quell’età è già forte la distanza con le ragazzine di 11-12 anni, ma per me, che dentro ne avevo 100 ed avevo visto più di quello che si può vedere in una vita intera, non era proprio possibile.
Così feci una cosa strana, che però in quel periodo eccezionale dopo la guerra era ammessa: feci 5 anni in uno da privatista.
Beh, anche per allora fu un po’ un’impresa. Ma quello “studio matto e disperatissimo”, con cui Leopardi dice di essersi “rovinato”, fu invece per me come un balsamo sulle mie ferite. Mi misi in pari e questo mi permise di frequentare il triennio delle superiori con le mie coetanee, fino alla maturità.
Quelli furono anni di ricostruzione. Alla mia ricostruzione interiore contribuì moltissimo la scuola, non solo perché lo studio mi teneva impegnata e molte materie mi appassionavano, ma anche perché frequentandola mi lasciavo via via riassorbire dalla normalità della vita delle altre ragazze, tenendole all’oscuro dei miei incubi.
La mia ricostruzione personale viaggiava in parallelo con la ricostruzione del Paese. Le città in macerie e le infrastrutture distrutte venivano riedificate con una velocità oggi inimmaginabile. E al contempo rinasceva, dopo la lunga dittatura fascista, la civiltà democratica.
Ma rinasceva molto più avanzata e completa di quella che c’era stata prima del fascismo.
Nel 1946 ci furono le prime libere elezioni dopo il Fascismo, e per la prima volta votarono anche le donne ! Oggi sembra una cosa scontata, ma all’epoca fu una novità strepitosa: voleva dire non solo riconoscere il diritto di voto a una metà della popolazione che ne era stata sempre esclusa, ma mettere le basi di un principio di parità tra uomo e donna in una società che allora era molto arretrata sotto questo aspetto.
Quelle prime elezioni dettero vita all’Assemblea Costituente, che rappresenta ancora oggi – a mio giudizio – il punto più alto della storia repubblicana.
I deputati erano uomini e donne temprati da lotte durissime e divisi tra loro da rigide appartenenze ideologiche, eppure seppero raggiungere un meraviglioso compromesso: la nostra Carta Costituzionale, entrata in vigore nel 1948.
Nella Costituzione italiana si è trovato un punto di incontro tra il meglio delle culture espresse dai partiti di allora.
E i padri e le madri costituenti ebbero anche l’umiltà di farsi aiutare da alcuni letterati per rendere gli articoli di quella Carta più armoniosi e comprensibili a tutti.
Anche se sicuramente è già stata materia di lezione, vi consiglio di rileggere la prima parte della Costituzione per conto vostro, senza mediazioni. Sono certa che non potrete non amare quel testo, al tempo stesso essenziale, potente e unificante.
Vi lascio immaginare cosa rappresentarono allora per me quei pensieri, quei veri e propri comandamenti scolpiti nella nostra Carta fondamentale che era stata appena approvata: libertà, uguaglianza, diritti, pari dignità, rispetto, solidarietà …
Dopo quello che avevo visto e vissuto nei dieci anni precedenti, davvero avrei potuto dire “de te fabula narratur”: è di te che si parla in questa favola.
Mi limito a ricordare qui solo un articolo, forse il più bello di tutti, l’art. 3:
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.La grande novità, rispetto ad altre solenni dichiarazioni di diritti, sta in quel “compito”: “rimuovere gli ostacoli” per far sì che quella “pari dignità” che unisce tutti noi – che siamo tutti diversi – e che quelle libertà diventino “effettive”.
È un compito che non potrà dirsi mai concluso, che ci chiama, ci interroga, ci obbliga a prenderci cura del nostro prossimo ogni giorno.
Ed è l’antitesi dell’indifferenza, perché “la Repubblica”, alla quale quel compito viene affidato, non è un’entità lontana: siamo tutti noi. “Per chi suona la campana ? Suona per te” (ci ricorda John Dunne, l’ho citato in Senato). Non si tratta quindi di rimanere in passiva attesa che lo Stato provveda – certo che deve provvedere – ma (lo chiarisce bene l’articolo che viene prima, l’art. 2) siamo chiamati tutti all’ “adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
Come sapete, io considero l’indifferenza il male più insidioso del nostro tempo. Ho provato sulla mia pelle e sulla pelle dei miei cari gli effetti dell’indifferenza.
Funziona come nella storia di Mitridate, quell’antico re che assumendo dosi sempre crescenti di veleno riuscì a rendersi immune. Solo che l’indifferenza, goccia dopo goccia, lascia vivi fuori, ma uccide dentro.
E furono anime morte, coscienze addormentate di milioni e milioni di cittadini normali, quelle che permisero che i fanatici, i violenti, i criminali (che non mancano mai) – nella mia storia i criminali nazisti e fascisti – potessero in un primo tempo attuare la più feroce discriminazione per “razza, religione, opinioni politiche, sesso, lingua, condizioni personali e sociali”, e poi realizzare i loro piani di sterminio e di oppressione.
Dunque l’etica della responsabilità è quella che ci obbliga a non restare indifferenti.
Oggi, nella vita quotidiana, per fortuna non servono eroi. Serve però tenere sempre viva la capacità di vergognarsi per il “male altrui”, di non voltarsi dall’altra parte, di non accettare le ingiustizie, di non assistere passivamente al bullismo, di non dire mai “non mi riguarda”.
Prima di congedarmi da voi, voglio dirvi la mia gratitudine per il sacrificio che avete fatto nei mesi scorsi, rimanendo a lungo chiusi in casa.
Naturalmente i paragoni con situazioni di guerra – dove ben altre sono le minacce da affrontare, le privazioni da sopportare, e ben diversi i rifugi in cui cercare salvezza – sono fuori luogo.
Però so bene che alla vostra età è stato molto pesante un così lungo periodo lontani dagli amici, dagli amori, dai compagni di scuola, senza poter coltivare attività sportive e tante altre passioni.
È un sacrificio che avete dovuto fare, molto più che per voi stessi, per la parte della società più esposta all’epidemia: i malati, gli anziani, i vostri nonni.Mi piace molto pensarvi tutti come Enea che porta in salvo da Troia il padre Anchise caricandoselo sulle spalle: un’immagine di grande civiltà.
Quella è stata una prova di maturità importante. E l’avete già passata con lode. E naturalmente sono grata anche ai vostri insegnanti, che non vi hanno lasciati soli, che sono riusciti a far vivere a distanza non solo la didattica ma lo spirito stesso della comunità scolastica.
Auguri di cuore per il vostro esame di maturità !
Milano, maggio 2020
Liliana Segre
(La Repubblica)