Amazzonia e favelas le aree più colpite.
Gli indigeni non hanno accesso alle cure: morto di Covid-19 anche il loro capo storico Paulinho Paiakan
Il Brasile si avvicina al milione di casi registrati di coronavirus; con 995.377 contagi a ieri sera, e 46.510 morti finora, è il secondo Paese al mondo in entrambe le tristi classifiche (guidate dagli Stati Uniti). In 24 ore, tra il 17 e il 18 giugno, sono stati registrati 32.188 contagi e 1.269 decessi: il tasso di mortalità è il 22,1%. L’epidemia sembra diffondersi a un ritmo meno feroce che nelle settimane precedenti, tanto che l’Oms ha parlato di «segni di stabilizzazione».
Eppure «L’incubo del Covid-19 è tutt’altro che sotto controllo»:
così si apre l’ultimo rapporto di Medici Senza Frontiere sulla situazione in Brasile. Troppo pochi tamponi somministrati; équipe mediche insufficienti, e decimate dal virus — secondo il rapporto muoiono circa cento infermieri al mese — e zone vulnerabili, come l’Amazzonia, in gravissima difficoltà.
Proprio gli stati del «polmone verde» del pianeta sono i più colpiti dal virus. Non solo perché la deforestazione illegale — già causa degli incendi della scorsa estate — è aumentata ancora del 50% (fonte: le immagini satellitari dell’agenzia spaziale brasiliana) come quasi tutti i reati in queste settimane in cui la polizia funziona a ranghi ridotti. Ma anche perché «gli ospedali non sono attrezzati con sufficienti posti in terapia intensiva», spiega Silvia Dalla Tomasina, coordinatrice per le emergenze in America Latina di Msf. «Sono anni che nel cuore della foresta chiudono ospedali: solo i quattro di Manaus, capitale dello stato di Amazonas, sono attrezzati per curare i pazienti di Covid, e li si può raggiungere solo in uno o due giorni di barca sul Rio delle Amazzoni». Nel rapporto si legge che a Tefé, per esempio, comune nel cuore dello stato di Amazonas, il 100% dei ricoverati per Covid ha perso la vita. I nativi sono tra le comunità più colpite: di ieri è la notizia che il Covid-19 si è portato via anche uno dei loro leader storici, il «cachique» Paulinho Paiakan, 65 anni, «padre, leader e guerriero» dell’Articulacao dos Povos Indígenas do Brasil.
«Il virus è arrivato in Brasile nelle grandi città, presumibilmente da brasiliani ricchi che avevano viaggiato»,
spiega Dalla Tomasina. «Ma è nelle persone ai margini che è scoppiato il contagio». Il rapporto indica i gruppi più colpiti: senzatetto, tossicodipendenti, abitanti delle favelas di di Rio de Janeiro e São Paulo. Spesso già malati di tubercolosi e Hiv. E il lavoro nero è diffusissimo: chi lo fa non ha potuto stare a casa». Le misure di confinamento in Brasile sono state gestite e decise dai governatori dei singoli stati «e il controllo non è stato capillare. Di qui il disastro». Gli ingredienti, spiega Dalla Tomasina, «c’erano già tutti: povertà, aree remote, lavoro nero». Le restrizioni applicate a singhiozzo, e quasi boicottate dal presidente negazionista che le ha definite «più dannose del virus» hanno fatto il resto.
(Corriere della Sera)