Tempo fa discutevo con un mio amico: quale sarebbe stato il numero di docenti appena sufficiente, e non necessario, per riavviare in sicurezza la scuola a settembre?
Il nostro calcolo è stato smentito nella maniera più definitiva dal ministero: l’assunzione di nuovo personale non è nemmeno contemplata per il piano di rientro. Sarebbe inutile sottolineare come settori ben meno nevralgici della vita del Paese hanno ricevuto o stanno ricevendo cospicui finanziamenti: è l’economia (del profitto) bellezza!
L’Italia non tiene alla sua scuola:
milioni di studenti, futuri cittadini di domani, quasi un milione di docenti e più di 200mila lavoratori tecnico-ausiliari non meritano altro che qualcosa che suona molto vicino ad un clamoroso: cavatevela da soli. Come? L’autonomia scolastica è lì per quello. Ci pensino i dirigenti e i loro staff, possibilmente tenendo il più lontane possibile – in nome dell’emergenza e della “governabilità” della fase – qualsiasi forma di condivisione. Del resto, la pandemia ha reso gli organi collegiali un optional: facendo il gioco dei soliti noti, che da tempo sostengono che democrazia scolastica e partecipazione siano residui démodé del tempo che fu.
Dopo aver rappresentato il più potente strumento di dismissione della scuola della Repubblica, ponendola su un mercato competitivo e agguerrito – in nome delle iscrizioni, dell’accesso ai fondi e del prestigio di ciascun istituto; e il diritto allo studio garantito per tutte/i? – l’autonomia scolastica ha trasformato negli ultimi 20 anni il volto della scuola pubblica italiana, succube di forze violentissime, che ne hanno stravolto il senso democratico, laico, inclusivo, pluralista, pretendendone l’omologazione al sistema globale, egemonizzato dalla logica del profitto; e che importa della finalità che essa deve assolvere in un Paese democratico, in quanto strumento dell’interesse generale? E’ soprattutto per gli svantaggiati: non disturbiamo il grande manovratore collettivo (il neoliberismo) e andiamo avanti.
Parole d’ordine come merito, velocità, competizione, semplificazione, competenze, capitale umano infarcite di una quantità sconcertante e grottesca di anglicismi e acronimi (benvenuti agli ultimi due: Pai e Pia) hanno sostituito il senso della cultura emancipante, della quale ciascun Paese, per rimanere democratico davvero, ha bisogno, traducendosi in pensiero critico-analitico, partecipazione, consapevolezza. Subordinata alla logica mercantile dell’offerta più variegata (a carico delle famiglie che se lo possano permettere), la scuola – un tempo “organo costituzionale” – è diventata dapprima “le scuole”, tante quanti sono gli istituti scolastici.
Ora – sotto le pressioni di Confindustria, Fondazione Agnelli, Compagnia delle Opere, della agguerritissima cordata che fa capo all’Anp (Associazione nazionale presidi) e delle regioni, che ne rivendicano la competenza legislativa esclusiva, non a caso concordi con il piano del Governo – rischia di perdere il carattere di spina dorsale del Paese e di strumento del principio di uguaglianza, attraverso le pari opportunità offerte a tutte/i: si noti la coerenza con quanto il recente piano Colao prevede per l’istruzione e l’agghiacciante documento pubblicato poco prima dall’Anp appunto. Fine della scuola.
Il 25 le piazze di Italia, nel giorno in cui la conferenza Stato-Regioni si riunisce per approvare le linee guida, saranno riempite da organizzazioni, sindacati, associazioni di docenti, genitori e studenti per iniziativa di “Priorità alla scuola”.
Era dai tempi della lotta contro la sedicente Buona Scuola di Renzi che non si assisteva ad una mobilitazione così significativa. Ed era dai tempi della Moratti che i genitori non prendevano la parola in prima persona, assumendo l’iniziativa e trainando un movimento che promette di essere una spina nel fianco per questo governo così incapace – nonostante la convocazione liturgica dell’ennesima commissione – di assumere funzioni e responsabilità.
Se la delega quasi in bianco ai dirigenti scolastici – chiamati ad organizzare il rientro sulla base delle concrete condizioni del proprio istituto – scompagina definitivamente qualsiasi assetto unitario (dal tempo scuola, alla flessibilità delle classi, alle modalità didattiche in presenza o a distanza, creando divaricazioni profonde tra istituto e istituto su temi anche legati al Ccnl, ad esempio l’orario dei docenti e la disponibilità di un giorno libero), facendo leva in maniera impressionante sulla autonomia organizzativa, la chiamata alle armi del terzo settore, che troverà porte spianate attraverso i “Patti di comunità”, consente ingresso e gestione nella scuola a ciò che scuola non è.
Alla richiesta di cancellazione possibilmente perpetua di qualsiasi modalità a distanza, le cui molteplici criticità sono state evidentissime, sia sul piano del diritto all’uguaglianza che su quello dell’apprendimento, si associa dunque quella del ritorno in sicurezza. Ma “a scuola”, non in un surrogato di essa, predisposto come forma di intrattenimento degli studenti in cui, però, si liquefacciano tutte le caratteristiche imprescindibili che questa istituzione deve mantenere per essere tale.
Un gruppo di docenti, molti dei quali partecipano attivamente al movimento “Priorità alla scuola”, ha costituito qualche settimana fa il Comitato per la salvaguardia e il rilancio della Scuola della Repubblica,
puntualizzando nel proprio manifesto costitutivo, che vi invito a leggere e sottoscrivere, le ragioni profonde e irrinunciabili che stanno dietro una formula – Scuola della Repubblica – che trasuda di principi costituzionali e di una storia di conquiste e di emancipazione che qualsiasi atto superficiale o premeditato che sia – da una delibera collegiale improvvida a un piano di rientro nazionale incurante di essi – contribuirebbero a cancellare definitivamente, dopo gli ultimi 25 anni di picconamento intenzionale di quelle istanze.
Abbiamo una grande responsabilità, da assumere tutte/i insieme, senza egemonie e protagonismi; nelle piazze, nella riflessione e nel confronto interni: spiegare a questo governo che la strada che ha intrapreso non è quella giusta.
(Il Fatto Quotidiano)