26 Dicembre, 2024
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Così e-commerce e smart working cambiano i consumi nella crisi

Rapporto Agi-Censis sulla reazione del Paese di fronte all’emergenza, che da sanitaria è diventata economica: così le nuove forme di organizzazione del lavoro e di spesa quotidiana delle famiglia stanno incidendo sulla ripresa dei consumi

Il coronavirus ha stravolto abitudini e aspettative degli italiani, ed ha soprattutto accentuato la tendenza al pessimismo. I tre quarti degli intervistati dal secondo rapporto Agi-Censis, elaborato nell’ambito del progetto “Italia sotto sforzo. Diario della transizione 2020”, sono convinti che la crisi economica causata dall’epidemia sarà più grave della recessione del 2008 e della crisi del debito sovrano. Ma nel corso dell’epidemia gli acquisti online sono decollati e i lavoratori hanno scoperto i benefici dello smart working, al punto che oltre la metà – il 60,4% – preferirebbe continuare a lavorare da casa.

Come prevedibile, sono crollati i consumi (-6,4%) e la percentuale è destinata a salire al 12% se si escludono i beni alimentari e par la casa. Non solo, ma l’e-commerce ha decollato visto che ci siamo trovato di fronte ad un vero e proprio boom degli acquisti sulle piattaforme online. In questo periodo infatti, ha fatto compere con un clic oltre il 25%.

Il rapporto mira ad analizzare le difficoltà che l’Italia si porta dietro dal passato, i nervi scoperti che hanno comportato l’impreparazione ad affrontare al meglio l’emergenza legata all’epidemia del Covid-19, per guardare in modo costruttivo al futuro. D’altra parte, come rileva l’indagine, il 61% degli italiani è convinto che tutto quello che è avvenuto ha dimostrato che si può vivere in modo diverso.

 

 

Gli italiani pessimisti nella ‘resistenza’

La pandemia ha tolto l’ottimismo agli italiani: i tre quarti della popolazione sono convinti che l’impatto complessivo sull’economia del Paese sarè superiore a quello delle due ultime recessioni, quella del 2008-2009 e quella del debito 2011-2012. Non solo, ma più della metà degli italiani (57,2%) sono convinti il colpo che subirà il nostro Paese sarà più forte di quello che sperimenteranno gli altri Paesi avanzati. E nel frattempo solo il 19,2% del totale ritiene che le misure di sostegno attivate dal Governo riusciranno a contrastare efficacemente le conseguenze economiche della crisi sanitaria.

Non cambia la valutazione se si guarda alla propria situazione personale: il 37,8% è convinto che al termine dell’emergenza la propria famiglia si troverà in condizioni economiche peggiori. Il 15,2% ritiene che a causa del coronavirus correrà il rischio concreto di perdere il proprio lavoro.

 

 

Gli italiani sembrano anche molto diffidenti rispetto al fatto che il Paese riesca a contrattare efficacemente con l’Europa in materia di aiuti:

solo il 29,2% ritiene infatti che il nostro peso politico sia destinato ad aumentare. Unica nota non negativa in questa ampia ricognizione riguarda le tecnologie digitali. Il 61% degli italiani è infatti convinto che tutto ciò che è avvenuto abbia evidenziato la possibilità di “vivere altrimenti” grazie alla loro repentina diffusione.

 

 

Come procederanno gli acquisti quest’anno

In questo quadro di incertezza e di pessimismo, come procederanno gli acquisti degli italiani da qui alla fine dell’anno? Una prima indicazione la si ritrova nelle previsioni di acquisto che ogni anno Censis e Confcommercio rilevano nell’ambito dell’Osservatorio Outlook Italia. L’indagine 2020 (realizzata a marzo) conferma la gerarchia delle diverse tipologie di beni. Le previsioni premiano i beni tecnologici: sono circa il 30% le famiglie che pensano di acquistarli.

Si tratta dell’unica tipologia di beni che fa registrare un incremento, sia pur minimo, rispetto al 2019. Al secondo posto gli elettrodomestici (che scendono però dal 29,6% al 24,5%). Seguono i mobili per la casa (dal 21,4% al 19,9%). Mantengono il quarto posto le spese di ristrutturazione degli immobili, con un calo tuttavia consistente (dal 26,5% al 19,5%) nonostante le misure di detraibilità.

Seguono tutti gli altri beni, ognuno dei quali con qualche punto percentuale in meno rispetto agli anni precedenti. Da segnalare, in particolare, il comparto delle autovetture che vede l’intenzionalità delle famiglie arretrare dal 18,1% del 2018 al 16,5% del 2019, fino all’attuale 12,1%.

 

 

Decolla l’e-commerce

Effetto-lockdown, l’e-commerce decolla in Italia. Stare in casa ha determinato infatti una forte spinta verso gli acquisti in rete da parte degli italiani. Questo perché nei mesi passati se era possibile reperire i beni di prima necessità – sia pur con diverse limitazioni – l’accesso ad altre tipologie di beni invece era possibile solo attraverso l’utilizzo di Internet e la consegna a domicilio. Nel rapporto AGI-Censis  emerge che il decollo dell’e-commerce è essenzialmente dovuto all’intensificarsi egli acquisti più che all’aumento degli utenti: il 25,9% degli italiani dichiara di aver aumentato l’uso della rete a questo scopo. E anche per il food delivery, c’e’ stato un vero e proprio boom.

Incrementi di utilizzo consistenti, sia pure meno marcati dell’e-commerce, si registrano per quanto concerne la spesa quotidiana a distanza (+14,8%) e per i servizi di food delivery (+10,9%). Interessante notare che la crescita del numero di utenti in questi due ambiti (+4,2% e +4,5%, ossia circa 2 milioni di consumatori in più) è stato superiore a quello dei nuovi utenti dell’e-commerce (+1,5%). Ma d’altra parte si tratta di un’attività più complicata che richiede competenze Internet maggiori.

In sintesi, più di due terzi degli italiani maggiorenni hanno praticato l’e-commerce(probabilmente anche attraverso la collaborazione con i familiari maggiormente esperti nell’uso della rete), poco più del 40% si è fatto consegnare la spesa a domicilio e circa un terzo ha utilizzato servizi di food delivery. Quest’ultima modalità, in effetti, risente di una variabile di offerta, essendo questo tipo di servizio localizzato esclusivamente nei comuni con una certa soglia dimensionale.

 

 

Lo smart working piace e si pensa al dopo

Oltre il 60% di coloro che hanno iniziato a lavorare in “smart working” durante il lockdown vorrebbe continuare a farlo.  Si calcola che il 40% degli italiani con più di 18 anni durante il periodo di lockdown abbia studiato o lavorato da remoto. Se si considerano i soli occupati, la quota di chi ha lavorato da remoto arriva al 56,4%. E il 60,4% di chi l’ha vissuta in prima persona preferirebbe, almeno nel breve periodo, rimanere in smart working.

La ragione prevalente è la possibilità di continuare ad evitare rischi di contagio (sui mezzi pubblici o in ufficio) (32,5%), ma non mancano coloro che rimarcano una più ampia possibilità di far fronte ad esigenze familiari (16,5%) o perché ritengono questo modo di lavorare più produttivo ed efficiente (11,3%).

 

 

Ma quali sono le intenzioni delle aziende? Il rapporto si rifà ad una recente indagine Istat che ha interpellato un campione rappresentativo di un universo di poco piu’ di un milione di unità, corrispondenti al 23,2% delle imprese italiane dell’industria, del commercio e dei servizi, che producono l’89,8% del valore aggiunto nazionale, impiegano il 74,4% degli addetti e circa il 90% dei dipendenti.

Quello che emerge con chiarezza è la maggior propensione ad adottare questo modello da parte delle aziende più dimensionate. Considerando però le caratteristiche strutturali del nostro sistema d’impresa, molto centrato – anche in termini di numero complessivo di addetti – sulle Pmi, le dimensioni del fenomeno appaiono nel complesso contenute.

Inoltre, sono circa 2,4 milioni di unità gli addetti d’impresa che potrebbero verosimilmente operare a distanza. Ampliando la stima ai lavoratori del pubblico impiego e considerando il
50% dei dipendenti che operano in settori dove esistono meno vincoli ad operare da remoto, si arriva a valutare il fenomeno in poco più di 2,8 milioni di lavoratori.

 

 

Nel rapporto, quindi, viene posta una questione dirimente: uno smart working, non più di emergenza, ma voluto e strutturato come potrà impattare sul sistema economico e sociale del Paese? Tutti riconoscono che le nuove modalità di lavoro rappresentano un cambio di paradigma che può dischiudere interessantissime opportunità per le città anche nel post-pandemia (il pensiero degli amministratori locali va naturalmente al decongestionamento e all’impatto positivo sulle variabili ambientali).

Però, sottolinea il Rapporto, “si tratta di una transizione che va accompagnata e guidata attraverso un affiancamento tra due modelli, senza pensare che l’uno possa repentinamente e necessariamente sostituire l’altro. Nessuno vuole spazi urbani desertificati. Le relazioni fisiche nei luoghi pubblici sono la vita stessa delle città. La dimensione relazionale è presidio di convivialità, di consumo, di intrattenimento, in ultima analisi anche di sicurezza”.

Però lo smart working non aiuta i consumi

Lo smart working non aiuta i consumi, anzi. Perché un lavoratore se opera da casa, di certo fa a meno del caffè, del panino o del pranzo al bar o ristorante. Per non parlare del fatto che è meno invogliato a fare acquisti di qualsiasi tipo.

Ed è quindi un vero e proprio grido di allarme quello delle imprese che operano nel settore del commercio (all’ingrosso e al dettaglio) e che in Italia sono più di un milione. Per la gran parte si tratta di piccole e piccolissime imprese: il 96,2% del totale ha infatti meno di 9 addetti.

Nel complesso rappresentano il 24,7% delle imprese del Paese e il 19,8 degli addetti: in valore assoluto, 3,4 milioni di lavoratori. Il rapporto evidenzia che c’è per molte di loro un rischio di potenziale chiusura definitiva.

 

Tenendo conto delle imprese che potrebbero non riaprire per tutto il 2020 o sospendere l’attivita’ a causa di una insufficiente domanda e il venire meno della convenienza economica a proseguire l’attività (profitti economici nulli o negativi) il rischio interessa circa 88.000 imprese nel commercio (il 9,5% del totale) e 179.000 (il 9,9% del totale) per le imprese di servizio, tra cui ristorazione, bar, alloggio, ecc.

Secondo le stime Ismea, a fine anno si registrerà una perdita di 24 miliardi risultante dal saldo negativo tra i – 34 miliardi di euro di spesa extra-domestica e i +10 miliardi di spesa domestica presso i dettaglianti (+6%). In pratica si stima che il canale Ho.Re.Ca. (Hotellerie, Restaurant, Cafe’) perderà, su base annua, il 40% del suo fatturato.

Nel Rapporto, si legge che appunto “la questione rimanda ad un problema che, anche al di là del periodo del lockdown, non fa dormire sonni tranquilli agli operatori della ristorazione ma in generale a tutti gli operatori del commercio al dettaglio. Un problema che può essere sintetizzato in una sola parola: smart working”.

In sintesi, quello che in alcuni settori d’impresa e della pubblica amministrazione viene visto come un nuovo modello organizzativo in grado di coniugare efficienza, economicità e soddisfazione dei lavoratori, per chi opera nel campo dei servizi commerciali urbani viene visto come un concreto rischio di contrazione del mercato.

 

Il rilancio dei consumi? Serve il taglio anche temporaneo dell’Iva

L’Italia deve fare come la Germania, e stimolare i consumi attraverso un taglio temporaneo dell’Iva. A questa conclusione arriva il rapporto Agi-Censis. Analizzando il calo dei consumi che prosegue incessantemente da 50 anni, e calcolando l’effetto lockdown che ha appensantito una situazione già gravemente compromessa, il rapporto ricorda che in Italia il 60,9%
del Pil nazionale è costituito dai consumi delle famiglie, mentre la media UE è decisamente più contenuta (53,5%) con alcuni grandi paesi come Francia e Germania che oscillano intorno al 51%.

A questo punto, meglio tagliare l’Iva o ridurre il costo del lavoro? “Tendenzialmente e storicamente”, ricorda il Rapporto, le famiglie privilegiano la riduzione delle imposte sul consumo. Anche l’anno scorso, ricorda il Censis, gli italiani si erano espressi contro un aumento dell’Iva, da scongiurare anche se in presenza di una riduzione delle aliquote Irpef.

Ma “comunque sia, al di là delle preferenze dei consumatori, la riduzione dell’Iva sul piano strutturale non pare una misura applicabile, soprattutto se si pensa di finanziare in deficit il corrispondente calo del gettito”, si legge nel Rapporto.

Potrebbe essere invece valutata in una logica emergenziale e individuando fin da ora un limite temporale e alcuni specifici settori. In questo modo si riuscirebbe (almeno in parte) a corrispondere alla necessità di fornire “linfa vitale” alle imprese dei settori più colpiti che sono in numero considerevole a rischio chiusura” prosegue aggiungendo come la Germania sia uno dei paesi dove si è scelta la via dell’Iva, “e nulla osta a farlo anche in Italia dove i consumi ristagnano da due decenni e dove il coronavirus sta falcidiando interi comparti”.

Tra l’altro, fa presente il Censis, “le ingenti risorse riversate dallo Stato alle famiglie per sostenere i redditi rischiano di finire in parte in risparmio precauzionale senza tornare nei circuiti economici”.

Per questo motivo, “appare ragionevole l’adozione di una misura emergenziale, temporanea e mirata sulle aliquote Iva. Un ulteriore auspicio, è che tale misura venga decisa in fretta, attuata rapidamente e connotata nel senso di una importante opportunità a scadenza, dopo la quale ogni vantaggio verrà meno. Gli italiani hanno sempre dimostrato di essere sensibili alle opportunità, e la grande corsa di questi mesi al bonus per la micro-mobilità sta lì a dimostrarlo”.

(Agi)

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