Lettera al direttore e risposta
Caro Direttore,
ho scritto questa lettera per sottoporle una problematica riscontrata negli ospedali torinesi post emergenza Covid19. Possiamo infatti tranquillamente affermare che l’emergenza è ormai scemata dentro e fuori i nosocomi piemontesi: dati, numeri, tamponi giornalieri eseguiti ne sono una inconfutabile prova. Negli ospedali si sono riprese le normali attività di ricovero, interventi, esami vari ma con una scarsa attenzione al malato che sempre dovrebbe essere posto al centro dell’organizzazione sanitaria, ma che spesso paga invece le conseguenze di amministrazioni poco attente alle esigenze del cittadino. Avete presente cosa significa oggi subire un intervento per un paziente? Significa dover affrontare da soli un percorso di ospedalizzazione spesso difficile. Già da soli, poiché ai parenti è assolutamente vietato poter far visita ai congiunti ricoverati, indipendentemente dalla patologia per cui sono ricoverati o dall’intervento che dovranno subire. Avete presente quali ripercussioni psicologiche provoca nel paziente e nei suoi familiari? Il paziente si reca da solo nel reparto dove viene ricoverato, affronta da solo l’intervento, il post intervento e può comunicare con i familiari solo attraverso il cellulare (sempre che sia in grado di farlo..). I familiari dal canto loro sono costretti a casa senza poter vedere e comunicare con il proprio caro. Possono telefonare in fasce orarie stabilite per parlare con il medico e ricevere notizie cliniche, ma nulla di più. Per eventuali cambi di biancheria si recano in portineria o nel reparto e, senza accedere, lasciano i cambi o i materiali necessari al paziente senza mai poterlo vedere. Questo per giorni se l’intervento è breve, per settimane se l’intervento si complica e la degenza aumenta. Mi chiedo dove siano ora le varie associazioni per il diritto ai malati che permettono una simile tortura psicologica per pazienti e familiari senza intervenire, giustificandosi dietro una pandemia ormai finita!
Roberta Torchia
Cara Roberta,
ho scelto la sua, ma è solo una delle tantissime lettere che ho ricevuto sul tema, davvero molto doloroso, della condizione dei malati ricoverati negli ospedali per patologie non connesse al Covid. Intanto, mi permetta una premessa, purtroppo doverosa: lei parla di «emergenza ormai scemata», e io vorrei con tutto il cuore condividere con lei questa valutazione. Credo invece, per nostra sventura, che la battaglia contro il virus sia tutt’altro che vinta. Gli ultimi dati sulla curva dei contagi, e soprattutto l’indice R=0, con il quale abbiamo ormai imparato a fare i conti ogni giorno, confermano che in Italia i focolai sono ancora tanti. Persino regioni che finora avevamo considerato virtuose (come il Veneto) stanno registrando un’inquietante recrudescenza del fenomeno virale. Teniamone conto, perché è probabile che tutto questa dipenda da un certo «lassismo» nei comportamenti quotidiani scattato dopo il lockdown lungo tre mesi. C’è voglia di normalità, e questo è comprensibile. Ma il rischio è che si trasformi in irresponsabilità, e questo è inaccettabile.
Ciò detto, vengo al drammatico problema che lei segnala. Non so se si possano definire «normali attività» quelle che si traducono in «scarsa attenzione al malato». Se lei lo denuncia avrà sicuramente ottime ragioni per farlo. Ma dopo quello che è successo durante questa Apocalisse io personalmente non mi sento di gettare croci addosso agli operatori sanitari. Abbiamo ancora negli occhi quelle immagini terribili: i pronto soccorsi e le terapie intensive che esplodevano, medici e infermieri stremati dopo turni massacranti. Un sacrificio immenso, costato la vita a 210 di loro. Li abbiamo definiti giustamente «eroi». Ma ce ne siamo già dimenticati, noi cittadini insieme ai politici e ai governanti, locali e nazionali. Ci siamo dimenticati che giovani medici ospedalieri e infermieri con anni e anni di anzianità si sono prodigati e si prodigano ogni giorno per stipendi miseri, se si pensa al valore sociale e materiale del servizio che prestano alla collettività.
Finita anche questa seconda premessa, non posso non condividere il suo grido d’allarme sui malati non Covid che si trovano in una situazione non meno inquietante. In tutti gli ospedali d’Italia, non solo in quelli torinesi. Molti pazienti, anche gravi e anche oncologici, hanno subito ritardi nelle terapie. Lo abbiamo scritto: si stima che durante la pandemia almeno 500 mila interventi chirurgici siano stati rinviati. Si sono così sommati i ritardi eccezionali, legati all’urgenza delle cure per il Coronavirus, a quelli ordinari, che invece ci portiamo dietro da anni. Bisogna dirlo: questo è inaccettabile. Ma tutti i pazienti, gravi o meno gravi, stanno pagando un prezzo alto alle rigide norme di sicurezza in vigore. Distanziamento e isolamento, comunicazioni solo via cellulare, contatti con i parenti solo in forma «virtuale». È tutto molto vero, ed è tutto molto penoso. Solo chi vive questa tremenda esperienza se ne può rendere conto.
Tuttavia, cara Roberta, le chiedo: abbiamo alternative? Possiamo correre il rischio che gli ospedali si trasformino di nuovo in «bombe biologiche»? Cosa ci hanno insegnato le tragedie di Codogno, di Alzano e di Nembro (per non parlare delle Rsa)? In questa terribile geografia del dolore non sono stati proprio gli scarsi controlli iniziali nelle strutture sanitarie a far dilagare il morbo? Sono il primo a sottoscrivere l’appello alle associazioni dei diritti dei malati, perché si occupino di questa «emergenza nell’emergenza», e valutino insieme alle autorità competenti se, soprattutto nelle zone più sicure del Paese, non si possano studiare protocolli di sicurezza diversi e magari meno severi. Purché però non si parli di «pandemia ormai finita». E soprattutto si evitino parole troppo forti e inappropriate: nonostante i disagi di pazienti e familiari, le «torture psicologiche» sono tutt’altra cosa.
(La Stampa)