E’ all’ex ambasciatrice all’Onu ed ex advisor per la sicurezza nazionale di Barack Obama, che Joe Biden starebbe guardando con particolare interesse come papabile candidata alla vice presidenza nel ticket democratico
Si parla tanto di Kamala Harris ed Elizabeth Warren ma è all’ex ambasciatrice all’Onu ed ex advisor per la sicurezza nazionale di Barack Obama, Susan Rice, che Joe Biden starebbe guardando con particolare interesse come papabile candidata alla vice presidenza nel ticket democratico. Biden e Rice si conoscono da anni, hanno già lavorato insieme alla Casa Bianca e secondo i bene informati tra loro c’è un grande feeling. Biden ha promesso di correre con una donna e che sia pronta per la presidenza “dal primo giorno”.
Da ambasciatrice a Palazzo di Vetro (dal 2009 al 2013), dove venne confermata all’unanimità dal Senato, Rice ha spinto i dossier per la difesa dei diritti umani e delle minoranze, la lotta contro la povertà e i cambiamenti climatici. Classe 1964, afroamericana, con un curriculum da rockstar ed una comprovata agenda liberal, sembra incarnare quello di cui Biden ha bisogno in questa fase, se non fosse per le controversie legate all’attacco al consolato di Benghazi, in Libia, nel 2012, che le impedirono di sostituire Hillary Clinton come segretario di Stato.
Secondo un sondaggio di Manmouth University, un terzo degli americani ritiene che la questione razziale giocherà un ruolo determinante alle prossime elezioni Usa,
due terzi sostiene Black Lives Matter e il 52% degli elettori, stando alle rilevazioni di YouGov, giudica Donald Trump un razzista. Il capo della Casa Bianca è indietro di almeno 9 punti rispetto allo sfidante democratico che è diventato competitivo anche in roccaforti del Grand Old Party (Gop) come Texas a Georgia mentre i repubblicani temono di perdere il controllo del Senato.
Prima del Covid-19 e delle proteste contro il razzismo, sottolinea l’Economist, Biden era il candidato della “Restaurazione”, ora la rielezione di Trump viene data al 10% e l’ex vice presidente “potrebbe avere l’opportunità di fare qualcosa di grande”, ovvero diventare riformista. Trump sta già sventolando “questa minaccia”, avvertendo che Biden “sarebbe ostaggio di pericolosi radicali” che vogliono tagliare i fondi alla polizia e confiscare tutte le armi. Correndo come presidente “di legge e ordine”, l’evoluzione progressista di Biden potrebbe fare gioco al tycoon che lo teme di piu’ come moderato, bianco, della classe media e cattolico. La popolarità di Trump si sta erodendo proprio in quelle fasce elettorali che lo hanno portato al trionfo nel 2016: uomini, bianchi, anziani e senza un diploma universitario.
L’ultimo sondaggio di Gallup segnala che il tasso di approvazione per l’inquilino della Casa Bianca è crollata al 38% contro il 49% di inizio maggio
e rispetto al minimo storico dall’inaugurazione toccato nel 2017 al 35%. I repubblicani lo appoggiano al 91% (dall’85% il mese scorso). Solo il 2% dei democratici approva il lavoro del presidente: è il gap piu’ ampio mai registrato da Gallup tra gli elettori dei due partiti. Da giugno, Trump ha inoltre perso il 6% di consenso tra gli indipendenti, scendendo al 33%. In questa fase della presidenza, sia George W. Bush e sia Obama avevano un tasso di popolarità sopra il 40% ed entrambi vinsero la rielezione. Trump si muove sui livelli di Bush padre e Jimmy Carter che vennero invece sconfitti.
Tra i bianchi il favore di Trump è sceso a inizio luglio al 48% dal 57% di giugno, sempre per Gallup, mentre tra coloro che non hanno una laurea è passato dal 66% al 57%. Tra gli uomini è scivolato al 53% dal 46% in un mese e tra gli over 65 anni è sceso al 47% dal 51%. Non sorprende dunque che il 74% degli americani, compreso un 63% di repubblicani, ritenga che l’America si stia muovendo nella “direzione sbagliata”, secondo l’ultima inchiesta di Ap-Norc. “In tempi di tumulto ha maggiore appeal il candidato piu’ sicuro e piu’ rassicurante”, osserva il professore dell’American University Allan Lichtman, tra i pochi esperti ad aver previsto la vittoria di Trump nel 2016.
Ma a novembre mancano ancora quattro mesi che in campagna elettorale sono un tempo infinito e potrebbero riservare qualche “sorpresa d’ottobre”, come avvenne nel 2016 quando l’annuncio da parte dell’Fbi dell’apertura di un’inchiesta sull’allora candidata democratica Hillary Clinton segnò la fine della sua corsa.
La più famosa sorpresa d’ottobre resta quella del 1980 quando, stando alle teorie del complotto pilotato, uomini di Ronald Reagan si accordarono con l’Iran per ritardare il rilascio dei 52 ostaggi americani nell’ambasciata Usa a Teheran, togliendo a Carter la possibilità di giocarsi questo successo. Gli ostaggi vennero liberati 20 minuti dopo l’inaugurazione di Reagan.
Dare Trump per vinto sarebbe imprudente. Intanto è arrivata la sentenza della Corte Suprema americana che consente agli Stati Usa di punire i grandi elettori infedeli, cioè quelli che non rispettano il voto popolare indicando un candidato alla presidenza diverso. Il collegio elettorale, che nei fatti elegge il presidente degli Stati Uniti, è costituito da 538 grandi elettori. Fino ad oggi solo in 32 Stati Usa e nel distretto di Columbia c’era il vincolo di votare per il candidato che ha ottenuto il maggior numero di preferenze.
(Agi)