Ce la faremo questa volta a dimostrare che l’emergenza non esclude la sapienza? «È arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo», scrive papa Francesco nell’enciclica Laudato si’ (193.). L’invocazione della crescita economica, però, domina i media, la politica e anche le fucine di idee per fare ripartire l’economia fermata e piegata dalla pandemia. Il testo del Piano Colao, per esempio, invoca sei volte una maggiore crescita economica. In esso si legge che non solo occorre «riportare il Pil al livello del 2019», ma anche che bisogna farlo «crescere successivamente a un tasso più sostenuto».
Non è una bestemmia, sia chiaro. È necessario far sì che la maggior parte delle attività contabilizzate dal Prodotto interno lordo (Pil) torni ai livelli precedenti il Covid-19.
Ed è facile rendersi conto che buona parte di queste stesse attività non potranno che riprendere esattamente come prima, pur essendo diverse di esse nocive e non sostenibili. Si pensi per esempio al commercio dei combustibili fossili, delle automobili da due tonnellate e 200 km orari, del gioco d’azzardo diffuso capillarmente in tutt’Italia, e di molte altre cose che aumentano sia il Pil sia la rovina dell’ambiente e delle persone.
E non è di sicuro un mistero che l’urgente transizione social-ecologica invocata dalla Laudato si’, prefigurata dall’attuale governo, indicata dalla Commissione europea e invocata e preparata da uomini e donne di buona volontà sarà l’opera di una generazione, non di un commando d’esperti d’emergenza. Tuttavia, bisogna rendersi conto che il momento per iniziarla è oggi. E che l’occasione di riflessione e ricostruzione creata dal dramma della pandemia è davvero propizia a ‘ripartire’ con slancio nella direzione giusta, evitando gli errori del passato. Fissarsi sulla crescita o la decrescita del Pil vuol dire mettere il carro davanti ai buoi. Il Pil è un numero importante, ma resta solo un numero e può rivelarsi molto fuorviante – come ammonì il suo inventore Simon Kuznets e come ormai riconoscono gli economisti e gli statistici di tutto il mondo. Proviamo allora a ‘ripartire’ non da un numero, ma dalle cose che fanno davvero il nostro bene e da quelle che fanno il nostro male.
E proviamo a considerare solo alla fine che cosa sarà del Pil.
Immaginiamo il domani. Usiamo ormai in prevalenza energia rinnovabile (sole, vento, acqua), che non costa niente, invece che le costose energie fossili (petrolio, carbone, gas). Cento miliardi di euro sono spariti dal Pil. Ci dispiace? Sono scomparse dai nostri acquisti migliaia di tonnellate di carta di costose enciclopedie, perché usiamo gratuitamente enciclopedie digitali, alcune delle quali sono realizzate gratuitamente (un veleno per il Pil) da decine di migliaia di autori.
Altri miliardi scomparsi dal Pil nel mondo.
Davvero siamo più poveri? Videotelefoniamo in internet in capo al mondo senza spendere direttamente denaro (come facevamo coi telefoni). Il Pil ha perso altri miliardi… Efficaci (e molto avversate) politiche pubbliche hanno dimostrato che si può far drasticamente diminuire (accade in molti Paesi) patologie come il tabagismo, l’alcolismo, la mala-alimentazione, le azzardopatie e la guida spericolata. La diminuzione dei rispettivi danni e rimedi materiali, sanitari e sociali sta sottraendo al Pil decine di miliardi. Uno stile di guida meno dispendioso e limiti di velocità stradale più prudenti (due innovazioni possibili domani, a costo zero) evitano ormai decine di migliaia di incidenti stradali e fanno risparmiare ai veicoli il 30% di energia. Altre decine di miliardi sono scomparse dal Pil. Se sparissero, come nella maggioranza dei Paesi civili, decine di migliaia di macchinette d’azzardo disseminate ovunque in Italia nei primi vent’anni del XXI secolo, svanirebbero con esse dal Pil altri miliardi ancora. Sarebbe un problema? Decine di altri prodotti e attività dannosi per la natura e per le persone, ma con grandi giri d’affari, sono scomparsi oppure il loro giro d’affari si è molto ridotto.
Il Pil è ulteriormente diminuito.
E il nostro benessere è aumentato. Lo percepiamo tutti. E lo testimonia anche quel sistema di indicatori che va sotto il nome di Bes (Benessere equo e sostenibile), studiato e introdotto da Istat e Cnel nei primi anni 2000 e diventato, da qualche tempo, grazie anche a una lunga campagna informativa e di opinione di ‘Avvenire’, un riferimento per la programmazione economico-finanziaria pubblica e l’indice che deve (dovrebbe…) guidare la mano pubblica a impostare le scelte di investimento. Forse da alcuni circoli di acuti specialisti verrà la frase che ripetono da mezzo secolo: ‘Oh, certo! Dovremo proprio operare perché tutto ciò avvenga. Ma non adesso.’ La sapienza, invece, ci farebbe dire: ‘Facciamolo finalmente, il momento è adesso’.
(Marco Morosini-Avvenire)