TEL AVIV – Chi passa da piazza Rabin, non si sorprende mai troppo nel vedere l’ampia facciata del comune di Tel Aviv colorarsi per trasmettere auguri per una festività o un gesto di solidarietà. Ma ieri sera i passanti non sono rimasti indifferenti alla mega bandiera libanese che sovrastava il centro della città.
Tra la piccola folla che osservava l’insolito panorama si è presto creato un acceso dibattito.
Dov e Dani sono entusiasti e fieri del sindaco della loro città “non c’è distinzione tra sangue, popoli, esseri umani. Non importa da che parte del confine stai”. Disapprova un 27enne originario di Haifa: “È un gesto ipocrita: perché non mettono la bandiera siriana con tutte le vittime che ci sono lì da anni?”. “Per me possiamo mettere pure quella siriana, hai ragione” si inserisce nella conversazione una ragazza dall’apparenza un po’ hippy. “Scusate se per me è un gesto strano, considerato che hanno cercato di distruggermi casa a Haifa con un missile nell’ultima guerra”. “Non dobbiamo avercela con il popolo libanese, che è ostaggio di Hezbollah. E anche se il singolo cittadino libanese ci odia, questo è un gesto di solidarietà verso un popolo che ora è ferito. La politica non c’entra nulla qui, sono i nostri vicini”.
Lo scambio diventa serrato, così come anche su Twitter la scelta del sindaco Ron Huldai è stata uno dei topic della serata. A dare il via al dibattito a colpi di 280 caratteri è stato Yair Netanyahu, il figlio del primo ministro che giusto poco prima aveva offerto soccorsi umanitari al Libano, che sembra stiano per essere recapitati con la mediazione di Francia, Cipro e Onu (in risposta è diventato popolare tra i libanesi l’hashtag “non ne abbiamo bisogno”). Netanyahu junior ha paragonato l’omaggio del comune a un atto pubblico di identificazione con il nemico, punibile per legge. Poi l’ex ministro dell’educazione Raffi Perez ha scritto che fornire assistenza umanitaria è un dovere, ma esporre la bandiera di un Paese nemico nel cuore di Tel Aviv solleva una questione morale perché “il Libano ha permesso a Hezbollah di rafforzarsi e consente all’Iran di portare avanti attività terroristiche dal proprio territorio”.
A piazza Rabin sono arrivati apposta anche Fabian e Jonathan, entrambi libanesi maroniti. Fabian viveva in Svezia da anni, si è sposato con un ragazzo israeliano conosciuto al gay pride di Tel Aviv e qui si è trasferito da un paio di anni. Sua sorella, per essere venuta a trovarlo, ha perso nel 2017 il titolo di “Miss Libano all’estero”. Jonathan invece è nato nel Sud del Libano da una famiglia di Tzadal (acronimo per Esercito Libanese del Sud), una forza che combatté a fianco dell’esercito israeliano fino a quando nel 2000 Israele si ritirò completamente dal Paese dei Cedri. Aveva 8 anni quando con la famiglia si rifugiò in Israele per scampare alle ritorsioni, come molti altri tzadalnikim.
Oggi la loro comunità conta circa 3,500 persone prevalentemente nel nord d’Israele, da dove possono guardare, oltre il confine, alla madrepatria che, per ora, rimane un miraggio. Entrambi dicono di “sentirsi divisi” alla visione della mega bandiera del loro Paese di origine nel centro di Tel Aviv. Fabian è triste per la tragedia “ma vedere la nostra bandiera in Israele mi rende ottimista, forse sarà possibile creare un ponte”. Jonathan trova che sia un omaggio giusto di fronte a una tragedia, ma è arrabbiato con il comune perché a maggio non hanno accettato la sua proposta di illuminare l’edificio in onore di Tzadal, nel ricorrere dei 20 anni dal ritiro del Libano.
Gabriele, italiano immigrato in Israele da oltre 10 anni, cerca le parole giuste. “È ovvio che mi fa strano. Istintivamente l’associazione è con un Paese per via del quale sono morti tanti israeliani. Ma mi rende orgoglioso pensare che oggi Israele è un posto libero di decidere di sposare una causa umana, anche se si tratta di nemici”.
Beirut, affaccio sulla devastazione: la vista dall’appartamento di lusso vicino al porto
Ali, originario di un villaggio beduino del Negev, ha una passione per il Libano. “Per noi arabi, i libanesi sono sempre stati i più ‘occidentali’, con la cultura più raffinata, la musica su cui siamo cresciuti. L’ebreo israeliano medio invece sente Libano e pensa subito a Nasrallah. Il libanese medio ha un odio viscerale per gli israeliani, ed è comprensibile visto che tra i Paesi circostanti sono quelli che più sono stati colpiti da Israele. Ma in realtà sono molto più simili di quanto non credano”.
Ci imbattiamo anche in Ilai, 17 anni. È venuto apposta perché anche i suoi genitori sono nati in Libano, hanno lasciato il Paese dopo la Guerra dei Sei Giorni, come altre migliaia di famiglie ebraiche. È cresciuto impregnato di cultura libanese, ama la musica di Fairouz e Ragheb Alama e sogna di visitare Beirut. “Mi piacerebbe che fosse il modo di fare arrivare un messaggio al popolo libanese: siamo vicini di casa, i nostri panorami e la nostra mentalità sono simili. Vorrei che mi vedessero come un essere umano, indipendentemente dallo Stato di provenienza. Sarei così felice di vivere in pace”. Il coetaneo Michael non è della stessa idea: “Mi indispone il fatto che in Libano non farebbero mai il gesto opposto. Se mi dicessi che domani facciamo la pace per questo omaggio, ti direi ok. Ma tanto non succede, quindi che senso ha?”. Simon taglia corto cinicamente: “È un bel segno, sì. Nell’attesa della prossima bandiera sulla facciata del comune…”
(La Repubblica)