A tre mesi dal protocollo che ha fatto tornare i riti a porte aperte, vinte le difficoltà di attuazione delle misure di tutela In Lombardia e Umbria già riviste le soglie sulle presenze
Ormai quasi nessuno ci fa più caso. Ed è diventata una prassi che ha le sembianze della normalità entrare in chiesa dopo essersi igienizzati le mani con il gel oppure venire accompagnati al proprio posto da un volontario per partecipare alla Messa. Ancora: indossare la mascherina durante tutta la celebrazione; sostituire il gesto della pace con uno scambio di sguardi; ricevere la Comunione in mano restando fra le panche; donare un’offerta all’uscita. Persino il criticato accorgimento di distribuire l’ostia consacrata con i guanti non ha fatto storcere il naso più di tanto: e da qualche settimana l’obbligo di avere una protezione sulle mani è anche caduto. Vengono “promosse” le Messe anti-Covid, con le precauzioni contenute nel protocollo firmato dalla Cei e dal governo proprio tre mesi fa, che ha permesso da metà maggio di tornare ad avere liturgie a porte aperte dopo la sospensione dei riti comunitari nei mesi del blocco totale.
«Quelle che sulla carta sembravano prescrizioni di difficile attuazione, si sono rivelate di gran lunga meno complicate da tradurre nel concreto all’interno delle parrocchie.
E non solo vengono applicate con la dovuta accortezza ma si ricorre anche a una sana elasticità», spiega monsignor Angelo Lameri, docente di liturgia e sacramentaria alla Pontificia Università Lateranense di Roma, che è consultore della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti e dell’Ufficio celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice. L’impegno dei preti è stato corale nella Penisola, sostenuto da gruppi di laici che si mettono a disposizione per il servizio d’accoglienza e poi per l’igienizzazione delle chiese al termine di ogni rito. «Anche i fedeli sono molto disciplinati – aggiunge il sacerdote –: ad esempio viene rispettato il distanziamento fisico, ci si siede nei banchi seguendo le indicazioni, si osservano le misure previste. Tutto ciò non mortifica la celebrazione e non rende la partecipazione meno autentica benché manchino alcuni gesti di prossimità come lo scambio della pace».
Eppure le assemblee si sono assottigliate. Soprattutto nelle zone più colpite dalla pandemia, ma in generale in tutto il Paese le presenze alle Messe festive sono diminuite: mancano all’appello gli anziani, poi le famiglie e persino i ragazzi che i genitori hanno “trasferito” in vacanza. In Lombardia, epicentro italiano dell’emergenza sanitaria, si stima una riduzione di due terzi dei fedeli che prima del Covid erano presenti alle celebrazioni del sabato e della domenica. Ne è ben consapevole la Cei che in una lettera inviata a metà luglio ai vescovi italiani ha parlato di ritorno all’Eucaristia «segnato da un certo smarrimento». «Penso che si sommino due disagi – sostiene Lameri –: da un lato, c’è ancora una giustificata preoccupazione legata al virus; dall’altra, si teme che nelle chiese i posti siano esauriti e si debba tornare a casa». Perché, in base all’intesa fra Cei ed esecutivo Conte, la capienza di ciascun luogo di culto va drasticamente limitata per assicurare la distanza di almeno un metro fra una persona e l’altra. «Con ironia dico che in qualcuno prevale una singolare generosità che si traduce nella volontà di lasciare spazio agli altri restando a casa», sorride l’esperto. E prosegue: «Finché rimarrà il contingentamento delle presenze, esso rappresenterà un deterrente che frena la partecipazione».
Invece è ormai superato il tetto dei 200 posti in ogni chiesa, indipendentemente dall’ampiezza. Tocca a ciascuna Regione decidere, su richiesta dei vescovi o delle Conferenze episcopali regionali.
E le prime revisioni si sono avute: ad esempio, la Lombardia ha già portato il limite a 350; in Umbria non ci sarà alcuna soglia purché si rispetti il distanziamento previsto. «Sono molte le chiese, basti citare gran parte delle Cattedrali, dove le distanze sono garantite anche se l’assemblea supera quota 200 – avverte il liturgista –. Inoltre va compreso che il quadro sanitario è diversificato nel Paese. Se ci sono aree dove l’allarme Covid può essere ancora elevato e quindi i rischi sono maggiori anche per il rigurgito di alcuni focolai, abbiamo zone in cui la diffusione del virus è stata bassa. Pertanto avere un’identica norma che vale in tutta Italia è penalizzante». Intanto si fa strada anche l’ipotesi di un possibile ritorno dei cori.
Poi tiene banco il dibattito sulle Messe proposte in streaming oppure attraverso tv e radio locali. Numerose parrocchie – e diocesi – le hanno abolite; altre continuano con questo servizio. «Le celebrazioni in onda sui media hanno avuto un ruolo importante durante il lockdown – spiega il docente –. Ma una partecipazione virtuale non è piena e attiva, come chiede la Costituzione Sacrosanctum Concilium. Tuttavia non possiamo neppure dire che siamo di fronte a una situazione fittizia se si tratta di liturgie in diretta e non in differita. Comunque, conclusa la fase acuta, è bene compiere un passo indietro rispetto alle trasmissioni delle Messe. Perché potrebbero costituire un deterrente oppure un alibi a una presenza reale che quindi verrebbe scoraggiata».
Le Messe “ritrovate” sono il primo grande segnale di una ripartenza ecclesiale in Italia che avrà un ulteriore slancio a settembre con l’inizio del nuovo Anno pastorale, come ha annunciato il presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti.
«Siamo ancora in un frangente di transizione – sottolinea Lameri –. Non possiamo dire di essere fuori dal tunnel ma vediamo la luce dell’uscita. Il periodo di chiusura totale ha aiutato a far apprezzare come una partecipazione vera alla liturgia si attui con la presenza del corpo, con i gesti, con il canto». E adesso possono riprendere «con accortezza» – dice la Cei – anche le celebrazioni dei sacramenti dell’Iniziazione cristiana, a partire dalle Prime Comunioni e dalle Cresime. «Certo, occorrerà evitare che si abbiano gruppi numerosi e quindi procedere suddividendo i ragazzi in più turni. Ma non si possono prospettare ulteriori rinvii – conclude il liturgista –. Lo stesso vale per le ordinazioni sacerdotali e diaconali che fra marzo e maggio si sono fermate. E in alcuni casi persino per le ordinazioni episcopali che sono tornate solo in queste settimane».
(Avvenire)