Come è già successo davanti alla resistenza dei popoli indigeni e durante la rivolta popolare di ottobre, che ha posto Piñera nel mirino degli organismi internazionali in quanto artefice di una crisi dei diritti umani, siamo testimoni di come il governo stia per macchiarsi di nuovo le mani con sangue mapuche
Non tutti i detenuti in Cile valgono allo stesso modo. Mentre ad un terzo della popolazione penale del paese (13.321 reclusi su un totale di 39.677) è stata concessa la modifica della misura cautelare o del compimento della condanna, che ha portato i reclusi ad uscire di prigione per decreto giudiziale dal 18 marzo di quest’anno, lo Stato ha deciso di mantenere in carcere più di 30 detenuti politici mapuche in diversi centri penitenziari. Alcuni di questi, nel pieno della crisi dovuta alla pandemia, sono in sciopero della fame da più di tre mesi. Come se non fosse abbastanza, tra i beneficiari della misura c’è anche Carlos Alarcón Molina, un poliziotto che si trovava in custodia cautelare perché accusato dell’omicidio di Camilo Catrillanca nel novembre del 2018.
Il governo di Sebastián Piñera è rimasto indifferente alle richieste dei prigionieri mapuche in sciopero della fame, anche se queste riguardano l’apertura di un tavolo delle trattative e il rispetto del Convegno 169 dell’Ilo (organizzazione internazionale del lavoro) che si riferisce alla prigione indigena. Nonostante questi siano dei punti stipulati nell’ambito di base della legge, il governo preferisce fare finta di niente aggravando le condizioni di salute dei comuneros nelle carceri cilene.
Oltre ad un’eccessiva perdita di peso dovuta allo sciopero della fame, i detenuti mapuche sono estremamente esposti al contagio per il Covid-19, dato l’indebolimento che ha sofferto il loro sistema immunitario.
Lontani dai loro territori e impossibilitati a vedere le loro autorità culturali, lo stato di salute dei prigionieri in sciopero della fame corre un rischio vitale imminente. Un caso estremo è quello del machi (autorità spirituale mapuche) Celestino Córdova, al quale è stato proibito di tornare al suo spazio sacro (Rewe) per rinnovare le forze spirituali di cui ha bisogno un’autorità come lui.
Oltre a questa indifferenza, un’altra delle strategie di frammentazione che il governo ha esercitato per indebolire il movimento di sostegno ai prigionieri è quella dei trasferimenti arbitrari che puntano a deviare certi imputati verso centri penitenziari lontani dai loro territori di origine. La custodia cautelare che sta scontando Tomás Antihuen Santi a Concepción, a più di 150 km dalla sua casa, e le minacce di trasferire gli 11 detenuti mapuche dal carcere di Lebu a Concepción (stessa distanza) sono un esempio concreto di questa strategia divisoria, considerando che le famiglie e le comunità sono i principali sostegni spirituali, morali e materiali degli scioperanti.
Nonostante ciò, davanti a tale situazione i prigionieri mapuche e le loro famiglie non sono soli. Nel mezzo dell’attuale crisi dovuta alla pandemia, nelle ultime settimane in tutto il territorio nazionale si sono moltiplicate le diverse dimostrazioni in supporto alle loro richieste.
Occupazione delle strade, manifestazioni nelle principali città del paese, atti di sabotaggio al capitale forestale nel sud del Cile e occupazione di diverse strutture governative e regionali sono state parte del repertorio della protesta articolato dalle comunità e dalle organizzazioni mapuche che insistono nel chiedere al governo di aprire una via democratica di comunicazione per risolvere le richieste dei prigionieri in sciopero. Durante queste azioni donne, bambine e bambini mapuche sono stati fortemente repressi da parte della polizia cilena, arrivando a trascorrere giornate intere trattenuti in diversi centri penitenziari.
Ma non solo la polizia o l’esercito – che sono ancora dispiegati nel Wallmapu, teoricamente a causa della “crisi pandemica” – si sono incaricati di reprimere il movimento di sostegno ai prigionieri. Di fronte all’occupazione da parte delle comunità e lov mapuche dei comuni di Curacautín, Victoria, Ercilla, Traiguén e Collipulli nella IX regione, come misura per fare pressione, durante la notte del 1° agosto di quest’anno decine di persone, convocate da proprietari terrieri e dirigenti dei settori forestale e agro-esportatore della zona, hanno picchiato le famiglie, incendiato i loro veicoli e sgomberato violentemente le strutture con la complicità della polizia. Per di più, hanno distrutto gli spazi sacri che le comunità mapuche mantenevano nelle città per incontrarsi e svolgere varie attività. Evidentemente, questi livelli di violenza non sono stati criminalizzati dal governo con la stessa mano dura con cui vengono trattati il mapuche o il povero. Tali atti sono stati persino giustificati sui media dalla destra nazionale e dai gruppi complici del neoliberismo, rimanendo finora impuniti di fronte alla giustizia.
I responsabili politici di tale scenario e coloro che traggono profitto da questi atti razzisti non sono esattamente gli esecutori diretti, che agiscono come complici consapevoli della violenza padronale, ma le élite economiche e suprematiste bianche che hanno mantenuto la loro accumulazione di capitali, lo sfruttamento e l’espropriazione a partire da un sistema coloniale che ha storicamente minato le condizioni di vita sia del popolo mapuche che dei settori popolari cileni, alimentando le gerarchie razziali, la violenza tra gli oppressi e affrontando settori costruiti sull’immaginario eurocentrico. Una guerra tra poveri, travestita da conflitto “etnico”, a vantaggio dei potenti.
Non è un dato minore che tali livelli di violenza si siano verificati pochi giorni dopo la visita nella zona del ministro dell’Interno Víctor Pérez Varela, viaggio in cui, oltre a delineare le nuove misure di controinsurrezione e repressione contro il movimento mapuche, ha offerto il suo sostegno a diverse corporazioni economiche della regione. Sono stati proprio i settori organizzati di queste corporazioni, famosi per le loro politiche anti-mapuche, e di estrema destra – come la Asociación de Agricultores de Malleco o la Agrupación Paz y Reconciliación en la Araucanía (Apra) – che, secondo l’audio in circolazione sui social network, hanno convocato i civili a riunirsi la notte del 1° agosto per linciare le famiglie mapuche che stavano occupando i comuni dell’Araucanía.
Nonostante questo contesto di violenza, che mostra la reale profondità del problema nel sud del continente, si è manifestato a livello mondiale il sostegno alle giuste richieste dei prigionieri politici mapuche.
Le diverse reti di solidarietà nazionali e internazionali hanno inviato messaggi di solidarietà ai detenuti e alle loro famiglie, chiedendo che lo Stato del Cile applichi le disposizioni contenute nella Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, e hanno esposto il pericolo che corrono i membri della comunità quando sono imprigionati in dure condizioni di sovraffollamento. Attraverso la pagina mapuche Aukin sono stati raccolti e riprodotti decine di comunicati e video inviati da diverse parti del mondo, tra cui i messaggi del Congresso Nazionale Indigeno (Messico), del comune autonomo di Cherán (Messico), dell’Ongi Etorri Errefuxiatuak Araba (Paesi Baschi), del popolo Nasa (Colombia), di organizzazioni popolari in Argentina, Italia e Cile, del movimento internazionale di solidarietà con il Kurdistan e dei collettivi femministi comunitari in Bolivia, insieme a molti altri.
Ogni ora che passa è terribile per lo stato di salute dei prigionieri politici mapuche. A quasi tre mesi dall’inizio dello sciopero della fame, l’indolenza di Sebastián Piñera dimostra il carattere razzista e repressivo dello Stato cileno. Come è già successo davanti alla resistenza dei popoli indigeni e durante la rivolta popolare di ottobre, che ha messo Piñera nel mirino degli organismi internazionali come artefice di una crisi dei Diritti Umani, siamo testimoni di come il governo stia per macchiarsi di nuovo le mani con sangue mapuche.
(Dinamopress)