13 Novembre, 2024
spot_imgspot_img

Kamala Harris, la ‘pioniera’ che entra nella storia: prima donna nera in un ticket presidenziale

Con queste elezioni possiamo cambiare la storia.

Combattiamo con convinzione, fiducia e speranza”. Kamala Harris ha accettato la nomination per la vicepresidenza con un discorso intenso e insieme durissimo, pronunciato almeno inizialmente con la voce rotta dall’emozione, in diretta dal Chase Center di Wilmington, Delaware – la città dove vive Joe Biden – davanti a una piccolissima folla di giornalisti e collaboratori.

Un discorso iniziato evocando le battaglie delle donne per ottenere, esattamente 100 anni fa, il diritto al voto. E quelle, ancora più dure, delle afroamericane, che lo ottennero molto tempo dopo: “Senza clamore né riconoscimento, si organizzarono, si mobilitarono, marciarono e lottarono, non solo per votare, ma per ottenere posto al tavolo delle decisioni. Sono loro ad averci dato, a noi che siamo venuti dopo, le opportunità di cui adesso godiamo. Aprendo la strada alla leadership pionieristica di Barack Obama e di Hillary Clinton”.

A introdurla agli americani sono state poco prima tre donne a cui lei tiene molto.

La sorella Maya, già a capo della sua campagna elettorale. La nipote Meena Ashley, autrice di libri per bambini, che alla storia della mamma e la zia ha dedicato un racconto, Kamala e Maya’s Big Idea. E la figliastra Ella Emhoff, figlia del marito – e suo principale sostenitore – Douglas Emhoff.

Cinquantacinque anni, origini indo-giamaicane, ex procuratore distrettuale di San Francisco, ex Attorney General della California, Kamala Harris è attualmente l’unica donna nera a sedere in Senato e la seconda ad esservi mai stata eletta.

Se riuscirà ad approdare alla Casa Bianca al fianco di Biden, sarà una vicepresidente da record: prima donna, certo, ma anche la prima nera, la prima con origini giamaicane e perfino la prima con radici asiatiche grazie alla mamma indiana che cita nel discorso.

Primati di cui è talmente consapevole da averli voluti riassumere nel nome in codice con cui la chiameranno gli uomini dei servizi segreti e che lei stessa si è scelta: “pioneer”, la pioniera. Racconta la sua storia personale, quella della figlia di due immigrati: “C’è una donna, il cui nome non è noto, la cui storia non è conosciuta. Una donna sulle cui spalle mi sono appoggiata.

Mia madre, Shyamala Gopalan Harris. Arrivata dall’India a 19 anni per perseguire il suo sogno di curare il cancro. All’Università della California, a Berkeley, incontrò mio padre, Donald Harris, arrivato dalla Giamaica per studiare economia.

Si innamorarono nel più americano dei modi: mentre marciavano insieme lottando per i diritti civili: erano gli anni 60″.

E a quella donna che Kamala deve tutto. La donna arrivata da lontano che le ha insegnato ad amare l’America: “Il mio impegno nasce dai valori che mi ha insegnato mia madre” prosegue. “E dalla visione del mondo che generazioni di americani ci hanno tramandato: la stessa che condivido con Joe Biden. La visione di una nazione dove tutti sono i benvenuti a prescindere da come appaiono, da dove vengono e chi amano.  Dove possiamo non essere d’accordo su tutto, ma siamo uniti dalla certezza che la vita di ogni essere umano conta, e merita dignità e rispetto. E dove ci occupiamo gli uni degli altri, affrontiamo insieme le sfide, celebriamo insieme i trionfi”.

È con pacata fermezza che Kamala Harris infiamma la platea virtuale della terza serata di convention democratica evocando la visione obamiana di una società post razziale, basata su un sistema sociale solidale, e di una nazione terra delle opportunità e dell’american dream. Ma non dimentica di sottolineare che la realtà che oggi sta vivendo l’America è un’altra: “Ci sentiamo anni luce lontani da quel paese. E la colpa è di Donald Trump. Il suo fallimento ha distrutto vite umane. Un’economia sana. Un intero modo di vivere”.

Fra un anno, auspica, ci saremo lasciati il Covid alle spalle. Ma avverte: “Non esiste un vaccino contro il razzismo”.

Per questo, insiste,  “Siamo a un punto di svolta. Il caos costante ci ha portati alla deriva. L’incompetenza ci terrorizza. L’insensibilità ci fa sentire soli. È molto da sopportare. Ed ecco il punto: possiamo fare di meglio. Meritare molto di più. Dobbiamo eleggere un presidente che cambierà le cose, e sarà in grado di fare un lavoro importante. Un presidente che unisca tutti – neri, bianchi, latini, asiatici, indigeni – per costruire il futuro che vogliamo, per riportare l’America a essere una collettività. Per questo, dobbiamo eleggere Joe Biden”.

Sempre vestita con abiti a pantalone, l’immancabile collana e i tacchi a spillo, Kamala Harris ha fatto breccia nel cuore e nell’immaginario degli elettori dem per la prima volta nel 2016: quando parlando alla Commissione Intelligence del Senato inchiodò l’allora ministro della Giustizia Jeff Sessions alle sue responsabilità sul Russiagate. E poi ancora nel 2018, quando con le sue domande molto precise mise in difficoltà il giudice Brett Kavanaugh, accusato di aver molestato una donna al college, durante l’audizione per la conferma alla Corte Suprema. Dimostrandosi capace, insomma, di poter tener testa a chiunque in un eventuale dibattito.

Stasera, col le sue parole puntuali e dirette e con la certezza che un’America migliore si può ancora costruire, tiene testa all’intera nazione: “Oggi abbiamo un presidente che usa le nostre tragedie come arma politica. Joe sarà un presidente capace di trasformare le nostre sfide in risultati”.

(La Repubblica)

Ultimi articoli