Nel 2020 i ricavi caleranno del 30%, ma la filiera punta sul rientro a casa delle aziende.
Marcolin (Confindustria):«Effetti devastanti, dobbiamo fare sistema e ripartire uniti»
C’è voluta una pandemia per far capire a chi prende decisioni di politica economica l’importanza e la flessibilità del tessile-moda-abbigliamento.
Colpito come e forse più di altri dal lockdown, fin dalle prime settimane di emergenza sanitaria il settore ha fatto la sua parte. Da Armani a Zegna, le grandi aziende hanno convertito impianti alla produzione di camici e mascherine in tnt (tessuto non tessuto). La pandemia ha mostrato inoltre quanto le decine di migliaia di imprese della filiera italiana siano legate ai territori: sono state fatte innumerevoli donazioni a strutture sanitarie e sezioni della Protezione civile.
Una forma di corporate social responsibility che si riflette anche nelle iniziative per i dipendenti: tante eccellenze del made in Italy, da Cucinelli a Prada, hanno lavorato con istituti di ricerca e università per affinare i protocolli di sicurezza, migliorandoli rispetto alle indicazioni governative, dalle fabbriche alla logistica e ai negozi.
La filiera italiana del tessile-moda-abbigliamento, unica al mondo ancora intatta (la maggior parte delle aziende francesi producono qui, da Dior a Vuitton, da Chanel a Hermès), in tempi di pandemia ha continuato a fare e a dare.
Senza chiedere nulla se non regole chiare e possibilità di essere ascoltata e coinvolta nelle politiche economiche per l’emergenza.
È avvenuto solo in parte: le aziende hanno utilizzato gli ammortizzatori sociali, ma alla fine, ad esempio, non potranno contare sul bonus consumi di cui si era parlato. Il settore è in profonda difficoltà, stretto tra i quattro mesi di interruzione quasi completa delle attività manifatturiere e commerciali e il congelamento dei consumi durante il lockdown, seguito da una lenta ripresa di quelli interni, ma in assenza quasi totale di quelli legati al turismo dall’estero. Secondo l’ultima indagine a campione di Confindustria Moda – che rappresenta 67mila imprese che danno lavoro a circa 600mila persone nei comparti tessile, moda e accessorio – nel secondo trimestre oltre l’86% delle imprese ha subito un calo di fatturato superiore al 20%. Il 93% delle aziende a campione ha fatto ricorso agli ammortizzatori sociali e nel 54% dei casi lo strumento ha interessato oltre l’80% dei dipendenti totali dell’azienda. Il 55% ha – tornando al tema della corporate social responsibility – anticipato la Cig al proprio personale. Quanto all’intero anno, si stima una flessione media del fatturato del 32,5% rispetto al 2019, pari a 30,3 miliardi meno.
Chiarissime le parole di Cirillo Marcolin, presidente di Confindustria Moda: «È una stima preliminare, ma gli effetti della pandemia sui bilanci e sull’occupazione saranno devastanti.
Siamo il secondo più importante settore manifatturiero in Italia e il primo contributore positivo alla bilancia commerciale. Dobbiamo fare ancor più sistema e insieme ripartire».
Non è solo un auspicio: gli eventi previsti in settembre sono, di fatto, un primo, forte segnale di ripartenza (si veda l’articolo in pagina): sfilate-evento a Firenze e Roma, fiere di settore e una fashion week e Milano che, a differenza di quella di giugno, tornerà a essere anche fisica, oltre che digitale. Poi, naturalmente, c’è il fronte consumi: settembre è storicamente il mese in cui si sente il bisogno – o almeno il desiderio – di rinnovare gli armadi e di farlo andando nei negozi, non su internet. Durante il lockdown l’e-commerce ha funzionato, ma non certo sostituito il canale fisico. Dai saldi (iniziati con un mese di ritardo rispetto al 2019) sono venuti alcuni segnali positivi e la mancanza degli acquisti da parte di turisti nel settore di alta gamma, quello a maggior valore aggiunto, è stata almeno in parte compensata dalla clientela locale.
In assenza di bonus o di una maggior attenzione da parte delle istituzioni, ancora una volta la filiera punta a trovare in sé la forza e le risorse per ripartire:
la parte a valle – nell’ottica di sistema citata da Marcolin – proverà a trainare quella a monte e per le Pmi manifatturiere, superata l’emergenza, potrebbe esserci un vero rimbalzo. La pandemia ha mostrato la fragilità delle supply chain globali e della dipendenza dall’Asia, sia per la produzione nella fascia media sia per le materie prime necessarie all’alta gamma, come la seta o i prodotti chimici per il tessile, tutti o quasi cinesi. Accorciare le filiera, cioè rilocalizzare, tornerà a essere uan priorità per molte aziende medie e grandi. L’importante è mantenere in vita le Pmi per ciò che resta di questa tempesta da Covid , che – lo abbiamo capito – non è ancora finita.
(Il Sole24Ore)