22 Novembre, 2024
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Democratici e 5stelle. allearsi non è un gioco, di Paolo Mieli

Per assecondare l’alleanza strutturale tra Pd e M5S proposta da Beppe Grillo, avallata da Luigi Di Maio e ratificata dalla piattaforma Rousseau, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte — in un’intervista al Fatto — ha invitato gli esponenti di entrambi i partiti a «non sprecare l’occasione» e a trovare un accordo in vista delle Regionali del 20 e 21 settembre. In particolare nelle Marche e in Puglia. Dal momento che mancavano poche ore alla consegna delle liste, l’appello di Conte è parso un’esortazione ai pentastellati a fare marcia indietro e a sostenere i concorrenti del Pd. Non era pensabile, infatti, che i candidati dem, Maurizio Mangialardi (Marche) e Michele Emiliano (governatore uscente della Puglia), si ritirassero per cedere il passo a qualche personalità estratta all’ultimo minuto dai cilindri di Nicola Zingaretti e Vito Crimi. Ma a quel che si è potuto constatare non c’era alcunché di predisposto in tal senso. La strana sortita del capo del governo ha così sortito l’unico effetto di mettere in imbarazzo i democratici e soprattutto i grillini. Dal fronte pentastellato, la pugliese Antonella Laricchia e il marchigiano Gian Mario Mercorelli hanno riferito che, dopo la sollecitazione di Conte, i candidati Pd li hanno chiamati per proporre loro di ritirarsi in cambio di qualche «compensazione». Laricchia, si è irritata con i vertici del Movimento («Non chiedetemi di piegare la testa, semmai trovate il coraggio di tagliarla», li ha sfidati).

La candidata dei Cinque Stelle ha anche espresso stupore per l’esortazione di Conte con il quale, ha rivelato, «ci eravamo intesi» sul fatto che «in Puglia non esistono le condizioni per un accordo con il Partito democratico». Ha poi definito «patetico» il comportamento di Emiliano (che solo adesso, ha detto, «si è ricordato di avere il mio numero di telefono») e ha bollato l’intero Pd come un partito capace solo di offrire posti: «Mi hanno promesso poltrone certe e prestigio assicurato». Le offerte del Pd non devono essere state considerate neanche appetitose tant’è che Mercorelli, nel dichiararsi anche lui indisponibile al ritiro, ha lasciato intendere che considerava offensivo gli fosse stata proposta — ha specificato — «una poltroncina». Il vicecapogruppo dem alla Camera, Michele Bordo, ha provato a rivoltare la frittata imputando la mancata intesa all’eccessivo «attaccamento alle poltrone» di Laricchia e Mercorelli.

A noi sembra che, poltrone o poltroncine, la via che dovrebbe portare a una riedizione del compromesso storico — stavolta tra Pd e M5S — sia stata imboccata con il piede sbagliato. Il M5S dovrebbe forse sforzarsi di offrire un’immagine meno strumentale del passo epocale che sarebbe intenzionato a compiere. Un’alleanza organica con la sinistra che vada perfino al di là dell’elezione del Capo dello Stato — oltreché sull’attività di governo, su giunte (Di Maio già propone intese per le Comunali del 2021), nomine negli enti pubblici — un accordo di tale ampiezza che si proietti financo sulla prossima legislatura, non può avere basi fragili. Né affidarsi all’estemporaneità.

Lo stesso discorso vale per il Pd che sbaglierebbe se pensasse di risolvere un problema del genere offrendo qui e là poltrone, poltrone e ancora poltrone. Il partito di Zingaretti non può illudersi di sciogliere ogni nodo con l’elargizione di qualche vicepresidenza, di qualche assessorato o della guida di una municipalizzata. È possibile che alcuni interlocutori accettino questo genere di scambio. Ma non tutti. Il Pd peraltro, prima di avventurarsi a costruire un’alleanza organica con il M5S, dovrebbe essere in grado di diventare un riferimento stabile per la sinistra di Leu e Italia viva (che già fanno parte della maggioranza di governo) ma anche per le formazioni guidate da Carlo Calenda e da Emma Bonino. Così da poter prospettare ai Cinque Stelle l’integrazione in un progetto durevole che goda già di una sua armonia. La meccanica riproposizione del «fronte unito per impedire che Matteo Salvini prenda i pieni poteri» rischia, un anno dopo, di non essere bastevole per un progetto così ambizioso.

Si tratta di un’impresa ardua per un partito, il Pd, abilissimo nel dar vita ad alchimie parlamentari (anche all’indomani di brucianti sconfitte elettorali) ma assai poco capace — lo si è constatato negli ultimi decenni — di costruire alleanze in grado di durare nel tempo. Difetto che il Pds prima, Ds e Pd poi hanno ereditato dal Pci. Il Partito comunista italiano, consapevole di questa propria carenza che lo faceva diverso da tutti gli altri partiti socialisti europei, si è sempre sottratto all’impegno di edificare uno schieramento alternativo idoneo a sfidare gli avversari sul terreno della competizione elettorale. Il partito della falce e martello optava in genere per grandi alleanze e grandi compromessi (giustificati, volta per volta, da una qualche emergenza) così da essere dispensato dal doversi cimentare in quel genere d’impresa. Quando poi, nella Seconda Repubblica, gli eredi di Togliatti e Berlinguer sono stati costretti da leggi elettorali maggioritarie a dar prova di attitudine nella costruzione di un’alternativa allo schieramento berlusconiano, hanno sprecato l’occasione giocando sulle rivalità tra gli alleati, piegandoli (talvolta con brutalità) e producendo, con tali sistemi, l’effetto di disseccare le sorgenti da cui sgorgavano i voti. Tant’è che, pur avendo ereditato gran parte di quel che restava delle formazioni del centro sinistra degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta (soprattutto della Dc ma anche del Psi e del Pri e altri partiti laici), oggi i dem galleggiano — nei sondaggi — attorno al 20% . Davvero poco.

La capacità di rendere le alleanze strutturate, durature e feconde appartenne alla Democrazia cristiana ma non al Partito comunista che dai compagni di strada ha sempre preteso (e spesso ottenuto) subalternità, eventualmente compensata, appunto, con «poltrone». Adesso non è detto che questo sistema funzioni con il pur duttile M5S. Proprio perché i Cinque Stelle si sono mostrati disponibili a cedere pressoché su tutte le decennali istanze programmatiche (presto, presumibilmente, saranno costretti a farlo anche sul Mes) è immaginabile che abbiano difficoltà a barattare le loro prossime «evoluzioni» con qualche vicepresidenza qua e là. Cercare un accordo con i Cinque Stelle comporta dunque per il Pd farsi carico di questo problema e individuare il modo di rendere allettante per i grillini la prospettiva di un’alleanza organica. Come? L’unica via sarebbe quella di rinunciare alla follia del ritorno ad un sistema proporzionale puro, conservando una pur piccola quota di parlamentari — il 10% (60 su 600) — da eleggere con il maggioritario. Cosa che, tra l’altro, renderebbe il sistema di voto per le elezioni politiche più omogeneo a quello in vigore da ventisette anni per Comuni e Regioni. Un vincolo di questo genere potrebbe forse invogliare i seguaci di Grillo alla costruzione di accordi più stabili. In ogni caso il Pd non può limitarsi a incrociare le dita nella speranza di trovare in futuro interlocutori più arrendevoli di Laricchia e Mercorelli.

(Corriere della Sera – Mieli 23 Agosto 2020)

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