Sembrava già finita ed il risultato scontato.
Invece la campagna elettorale americana si riaccende, complici le violenze a sfondo razziale.
Ora Biden sembra annaspare mentre Trump è in netta ripresa. Ovunque, ma soprattutto negli Stati chiave
Più di novanta giorni. Oltre tre mesi. I disordini a Portland sono in corso da tempo, sono diventati rituale quotidiano, l’ora di caccia dei predatori notturni. Nessuno li ha mai fermati. Né il sindaco di Portland né il governatore dell’Oregon. Due democratici. Sono fatti. Come è un fatto il loro rifiuto di chiamare la Guardia nazionale per sedare il vandalismo, la distruzione, la violazione della proprietà privata (che non è un capriccio, soprattutto quando ne hai poca). Novanta giorni.
Tutto questo non ha niente a che fare con la nobile protesta per l’eguaglianza, contro il razzismo, i maltrattamenti e il grilletto facile della polizia contro i neri. Il saccheggio e l’incendio non fanno parte del galateo degli alti principii. I dem per tutto questo tempo hanno scelto il silenzio, una strategia elettorale che aveva un duplice obiettivo: non essere fraintesi sull’appoggio al Black Live Matters, lasciare Trump nel pantano dell’America in piazza. Battaglia politica.
Tre colpi di pistola
Poi l’altro ieri è arrivato il morto a Portland, un uomo bianco, un militante dell’estrema destra trumpiana (esiste, come l’estrema sinistra che fiancheggia i dem), tre colpi di pistola contro una carovana pro Trump. Una vita spezzata. Tra i moderati dem ha cominciato a serpeggiare il timore di restare a loro volta intrappolati in un girone infernale di fuoco e fiamme. Il rumore dei social ha cominciato a far sentire un “All Lives Matter” e nessuno dava una risposta. Troppo.
Dopo novanta giorni Biden ha fatto quello che avrebbe dovuto fare fin dall’inizio, ha condannato la violenza nelle strade: “La violenza che abbiamo visto a Portland è inaccettabile, sparare per le strade di una grande città americana è inaccettabile: io condanno questa violenza in modo inequivocabile. Condanno la violenza di qualunque tipo da qualunque parti arrivi, sia di sinistra che di destra. E sfido Donald Trump a fare lo stesso”.
Biden fuori tempo
Meglio tardi che mai, ma sempre tardi. Perché i repubblicani di fronte all’escalation della violenza si sono infilati nel varco lasciato aperto dai dem. Perché la mossa di Biden arriva con l’orario sfasato, è di una tempestiva intempestività.
Condannare le violenze a soli due mesi dal voto, con l’acqua alla gola nei sondaggi degli Stati in bilico (e vedremo come si leggono, i sondaggi), con tre quarti della campagna presidenziale già consumata, ecco, farlo in questo modo significa certificare di essere nei guai, di non aver capito cosa stava accadendo tra gli stessi elettori dem, nei sobborghi delle città, nelle aree suburbane dove Biden sta perdendo terreno.
Il candidato democratico da tempo era stato allertato (e criticato) da molti esponenti dem sulle criticità che stavano emergendo: voto in calo nei centri suburbani, ascesa di Trump, alienazione dei ceti moderati, critiche sull’appoggio al movimento che urla(va) in piazza “defunding police”, il taglio dei fondi per la polizia.
La parabola discendente di un problema che rischia di presentarsi sullo schermo dei risultati elettorali del 3 novembre. Non è più “solo” il tema del “candidato nello scantinato” e del movimentismo di Trump negli Stati in bilico, il bersaglio è il cuore del messaggio elettorale dei democratici. Possono correre ai ripari, ma rischiano il dramma collettivo e anni di sedute di autocoscienza se perdono come nel 2016.
Il problema dei democratici
Biden ha provato a spegnere l’incendio in quella parte del campo in fiamme, è volato in Pennsylvania (Stato in bilico) per sostenere la campagna “in presenza”, con i comizi, e non più come candidato su Zoom. Da Pittsburgh ha replicato con la versione “Peace & Love” della presidenza. Dunque parte l’affermazione auto-validante (“abbiamo bisogno di giustizia e sicurezza negli Stati Uniti”), prosegue con la domanda retorica (“c’è qualcuno che pensa che l’America sarà più sicura con la rielezione di Trump?”), va avanti con il quesito che ha il presidente (forse) d’acciaio sottinteso (“vi sembro io un socialista radicale, con un debole per i rivoltosi? davvero?”) e infine, il capolavoro del non detto: “Le devastazioni non sono protesta, sparare non è protesta, sono violenze che devono essere perseguite. Trump non è in grado di fermare le violenze”.
Biden gioca a rovesciare sull’avversario un problema che, piaccia o meno, riguarda il suo partito. E naturalmente anche la presidenza degli Stati Uniti, ma sul territorio non c’è Donald Trump, ci sono altri soggetti.
Chi? Domande e risposte sul taccuino del cronista: da chi è governato l’Oregon? Kate Brown, una democratica. Chi è il primo cittadino di Portland? Ted Wheeler, un democratico. Chi è il sindaco di Kenosha? John Antaramian, un democratico. Chi è il governatore del Wisconsin? Tony Evers, un democratico. Stop.
Il fantasma di Putin
La difficoltà c’è e si nota con il riemergere di antichi cavalli di battaglia che non hanno funzionato. Biden a Pittsburgh a un certo punto fa uscire dal cilindro il fantasma di Vladimir Putin affermando che “Trump è sottomesso al presidente russo Putin”. Siamo di nuovo al 2016, al Russiagate, non portò fortuna ai democratici. E sarà anche come dice Biden – i dem hanno sempre ragione – ma sul taccuino del cronista resta il fatto che anche oggi la Casa Bianca ha avvisato il Cremlino: “Mosca rispetti la sovranità della Bielorussia e il diritto del suo popolo a eleggere liberamente i propri leader”.
In un crescendo mistico, il candidato “in presenza” (sempre lui, Biden) cita un Papa del passato: “Trump è determinato a diffondere paura. Io penso alle parole di Papa Giovanni Paolo II: ‘Non abbiate paura, non abbiate paura”. Putin, il Papa, mancano due mesi al voto e l’elenco dei personaggi citati da entrambi i candidati sarà ampio e sempre più fantasioso.
Colpo d’acceleratore
Trump aveva cominciato il suo “tweet storm” al risveglio, come di consueto, e dunque ecco “i sindaci della sinistra radicale e i governatori delle città in cui c’è questa folle violenza” che “hanno perso il controllo del loro ‘movimento’. Non doveva essere così, ma gli Anarchici e gli Agitatori si sono lasciati trasportare e non ascoltano più. Hanno persino costretto Slow Joe, il lento Joe Biden, a uscire dal suo seminterrato”.
Sono colpi duri, sicurezza e criminalità sono diventati fatto del giorno, argomento sensibile, fattore di scelta da parte degli elettori. The Donald fa quello che hanno fatto i democratici con la crisi del coronavirus, spinge l’acceleratore fino in fondo: “Se non insistessi nell’attivare la Guardia nazionale e nell’andare a Kenosha ci sarebbero altri morti e feriti. Voglio ringraziare le forze dell’ordine e la Guardia nazionale. Ci vediamo martedì”.
Trump conferma che domani sarà a Kenosha, in Wisconsin, epicentro della protesta dopo il ferimento dell’afroamericano Jacob Blake. Naturalmente i dem lo hanno invitato a restare alla Casa Bianca, il governatore del Wisconsin, Tony Evers ha chiesto a Trump di non muoversi, in tandem con il sindaco di Kenosha, John Antaramian, agitando l’argomento che così fomenta le violenze e alimenta le divisioni, ma sostenere che c’è un territorio del paese “off limits” per il presidente degli Stati Uniti cozza con l’idea di un gioco democratico uguale per tutti. Non può funzionare. E infatti non funziona.
Joe Biden fa la parte del candidato responsabile: “Questa non è la leadership di un presidente. Il compito di un presidente è abbassare i toni, unire le persone che non sono d’accordo, rendere la vita migliore di tutti gli americani, non solo quelli che sono d’accordo con noi, ci sostengono o ci votano”.
Segnali dai sondaggi
L’impatto su chi guida la comunicazione è grande: Biden doveva parlare di coronavirus (negli Stati Uniti hanno superato i 6 milioni di casi), ma Trump lo ha costretto a spostarsi sul terreno più accidentato per lui, le proteste in casa degli Stati e delle città governate dai democratici. È il presidente che fa l’agenda, detta la notizia, non il candidato che è (per ora) in vantaggio nei sondaggi. Non è un buon segno per i dem.
Trump parla di sicurezza e Biden commenta quello che dice Trump. È l’egemonia della campagna repubblicana in questo momento. Nei sondaggi questo scenario si vede: Trump fa meglio del 2016 negli Stati chiave, anche il voto degli elettori di colore sarebbe superiore rispetto a quattro anni fa. Numeri? Secondo il sondaggio pubblicato da The Hill/HarrisX, il sostegno tra i neri al lavoro del presidente è aumentato di 9 punti dopo la convention che, non a caso, ha visto tanti interventi di uomini e donne di colore.
La strategia del Trump “inclusivo” fa raddrizzare i capelli ai suoi oppositori, che dipingono The Donald come un “razzista”, arrivando a sostenere che i neri testimonial per Trump alla convention sono sono credibili.
Nessuna sorpresa, nel maggio scorso Biden commise un errore da gaffeur professionale, pronunciò una frase tremenda, l’apoteosi dell’errore retorico – e dell’orrore politico: “Se hai dei problemi a capire se stai con il presidente Trump o con me, allora non sei nero”. Lo disse alla radio e il ruzzolone ricordò il suicidio di Hillary Clinton quando disse che gli elettori di Trump erano un “gruppo di miserabili”. Correva l’anno 2016, quello fu il sigillo di ceralacca di Hillary sulla sconfitta. Anche nella comunità ispanica secondo The Hill/HarriX il gradimento è aumentato di 2 punti.
Le cose cambiano negli Stati chiave
Il presidente sta accorciando la distanza e in novembre la corsa sarà un testa a testa, questo pensano gli strateghi dei due fronti elettorali. Basta osservare la media (non l’ultimo, la media è ciò che fa trend e diventa utile per l’analisi politica) dei sondaggi di Real Clear Politics negli Stati chiave. Sul nostro monitor lampeggiano i numeri di Michigan, Pennsylvania e Wisconsin, siamo nella Rust Belt che nel 2016 consegnò la Casa Bianca a Trump.
In Michigan, Biden nella media dei sondaggi è sceso da 8,4 punti (28 luglio) al 2,6% un mese dopo.
In Pennsylvania la media di Biden è scesa, sempre nello stesso periodo, da 7,4 punti a 4,7 punti.
Nel Wisconsin, la media di Biden era a quota 6,4 punti il 28 luglio, il 26 agosto si è ridotta a 3,5 punti.
Per chi suona la campana? Sabato scorso è uscito un sondaggio di Yahoo News/YouGov che rafforza questo quadro di rallentamento di Biden e accelerazione di Trump. Il candidato dem ha solo 6 punti di vantaggio a livello nazionale, guida con un 47 a 41 che non può bastare. Perché? Le ragioni sono in una tabella del sondaggio che racconta tutto delle due Americhe.
Biden e Trump sono due mondi in rotta di collisione. Il candidato dem vince in città (66%) dove il presidente perde (23%), ma The Donald vince nelle zone suburbane (45%) e Joe perde (43%), mentre nelle cittadine (centri più grandi di un villaggio e più piccoli di una città) Trump vince nettamente (50%) contro Biden (37%), dulcis in fundo, le zone rurali, cuore dell’America, dove The Donald vola (53%) e Biden rallenta ancora (35%). Cosa vuol dire tutto questo? Che si replica uno schema preciso, il conflitto tra città/campagna, la costa del Pacifico e quella dell’Atlantico, contro gli Stati Midwest, del Sud, il ventre della Balena America.
Bagliori di una svolta
Altro mito di cartapesta: i ricchi votano Trump. Non è proprio così, nel sondaggio di Yahoo News/YouGov i meno abbienti sotto i 50 mila dollari all’anno votano nettamente per Biden (50%) e meno per Trump (34%), ma tra i 50 mila e i 100 mila dollari le preferenze sono ancora in favore di Joe (49% contro 43%) e Donald non può neppure festeggiare con le classi sopra i 100 mila dollari, perché è alla pari con Biden (46%).
Attenzione alla quota di indecisi tra nella classe di reddito sotto i 50 mila dollari, l’11% non ha ancora deciso chi votare. Chi sta meglio sa cosa fare. Sarà il “Forgotten Man” a fare la differenza insieme all’uomo dell’immensa provincia americana. Il 3 novembre vedremo se prevarrà l’Homo Metropolitanus di Biden o l’Homo Ruralis di Trump.
Sono tutti segnali, bagliori, rumori di una corsa che dalla convention repubblicana ha svoltato a destra. Se questo scenario ha fondamento e si consolida, Trump vince. Ma la regola che vale per Biden è in vigore anche per Trump: è troppo presto. E Naturalmente la storia non si fa con i “se” né prima né dopo, tanto meno con i desideri scambiati per realtà.
Così restano sull’asfalto le frenate e accelerazioni della pazza corsa per la Casa Bianca sparse qua e là. La sintesi del radiocronista che segue dai box del Gran Premio e vede i meccanici preparare gomme e rifornimento è un classico: Biden è in difficoltà, Trump corre.
(Agi)