“Un uomo eccezionale, discreto, riservato, eppure capace di una rara umanità”.
Gli uomini del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa ricordano così all’Adnkronos, nel 38esimo anniversario della morte, l’ufficiale “appassionato dell’Arma e dei carabinieri, dritto ai suoi obiettivi nella lotta alla criminalità tutta. Eppure capace di affezionarsi ‘ai suoi ragazzi’ come un padre. “Sono stato con il generale Dalla Chiesa dal giugno ’77 a ottobre ’79, due anni e mezzo. Da subito fui scelto nella sua segreteria, in via di Ponte Salario, eravamo io e un capitano. Per il generale era essenziale il riserbo, non diceva mai quello che faceva, come o dove andava. Arrivava sempre all’improvviso. Allora avevo 22 anni, ero vice brigadiere e lui per me era inarrivabile” racconta Tommaso Tattesi.
“Uno come Dalla Chiesa si portava dietro l’esperienza – continua – si parlava di lui sulla stampa, in televisione, aveva costituito il nucleo speciale di polizia giudiziaria a Torino.
Avere a che fare con lui non era una cosa semplice, incuteva timore a tutti, anche ai colonnelli, non solo a me che ero ragazzino.
Già all’epoca lo pensavo, era avanti anni luce rispetto ai suoi colleghi, aveva tre marce in più: la penetrazione dell’ambiente criminale, il controllo del territorio vero, noi studiavamo i documenti delle Brigate Rosse”.
“Un uomo eccezionale, avanti agli altri” ricorda anche Enzo Magrì, nome di battaglia ‘Nero’, uno degli ‘invisibili’ senza divisa e senza nome della Sezione Speciale Anticrimine dell’Arma dei Carabinieri, voluta e creata dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e raccontata nel libro di Emiliano Arrigo, ‘Il coraggio tra le mani’.
“Mi ricordo quando morì la moglie, Dora Fabbo, andai a Torino con quella che all’epoca era la mia fidanzatina – riprende Tattesi – entrai in casa, gli andai vicino, lui era distrutto per la morte della sua compagna di vita.
Con gli occhi rossi mi accarezzò quasi come si accarezza un figlio: lì ebbi la sensazione di avere a che fare non con l’uomo duro e difficile ma con un personaggio umano, vero. Quell’istante l’ho fotografato nella mia mente, ricordo perfettamente ancora oggi la stanza dove eravamo”.
“Così come quando tornai in vacanza durante l’accademia – conclude – entrai nel suo ufficio a salutarlo in divisa storica, lui era intento a scrivere, non alzò lo sguardo ma mi misi perfettamente sull’attenti. Senza guardarmi in faccia mi disse: ‘Ti dovevo mandare in accademia per vederti salutare bene?’. Si affezionava ai suoi, una volta andò in casa dell’autista, un giovane ragazzo marchigiano che si era congedato, per dirgli davanti ai genitori ‘non ti congedare, resta con me’. Della sua morte non ho saputo la sera stessa ma l’indomani mattina in radio, si parlava dell’omicidio, è rimasto un nodo alla gola per parecchi minuti, come fosse stato per me un parente”.
(AdnKronos)