23 Dicembre, 2024
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“La Fragilità del maschio Alfa” Di Gianluca Di Pietrantonio, criminologo forense

 

 

 

Ci troviamo sempre più spesso di fronte a episodi di violenza che riempiono le pagine dei giornali e i palinsesti televisivi con pareri, teorie, giudizi, commenti; centinaia di persone che a vario titolo argomentano, ipotizzano, condannano o assolvono, strumentalizzano talvolta, ma raramente suggeriscono delle proposte e quasi mai si adoperano (soprattutto nei vari incasellamenti istituzionali e funzionali) per adottare opportune misure preventive e di contenimento. Poi c’è il popolo dei social, dove migliaia di persone che di titolo non ne hanno alcuno, contribuiscono a riempire pagine virtuali con pensieri in libertà di comunque irrilevante funzionalità.
Ognuno di questi accadimenti, sempre drammatici per assurgere agli onori della cronaca, di certo trova il suo epilogo e le sue ragioni in storie individuali di crescita, di formazione, in esperienze di vita e in contesti sociali dove maturano; per cui, intanto, è pressochè inutile teorizzare in maniera generalizzata.
Mi sia permesso, inoltre, far pensare a quella miriade di fatti che pur conservandosi abnormi per i loro contenuti di violenza, per diverse ragioni non si guadagnano gli allori della divulgazione mediatica, non di meno risparmiando sofferenza e dolore.
Di storie aberranti, ahimè, negli ultimi 30 anni ne ho ascoltate fin troppe, in virtù di un ruolo che prevede di circoscrivere le responsabilità e collezionare elementi probanti indispensabili a garantire l’azione penale.
Storie diverse ma con le stesse matrici di violenza, prevaricazione dell’uomo sull’uomo, efferatezza e completa indifferenza per le conseguenze degli agiti.
Non mi è mai bastato limitarmi a ricercarne attribuzioni e confezionare pacchetti perfetti per garantire pene esemplari; ho vieppiù preteso di capire, trovare un senso dove troppo spesso un senso non c’è, quasi volessi medicare la mia sfera emotiva con il balsamo della comprensione ultima.
Da questo l’impegno nello studio, nell’analisi, nella ricerca, la rilettura in chiavi diverse di uno stesso fatto, fino a sminuzzarlo in elementi semplici e incontrovertibili, per tentare di corrodere l’inconoscibilità dell’animo umano.
Di cosa è malato l’uomo di oggi, in particolare le nuove generazioni? Dove vanno ricercate le responsabilità? Quali sono le ragioni di tanta violenza, odio, intolleranza? Sono davvero determinanti le matrici ideologiche?
Alle radici della violenza vi è senza dubbio una rabbia cieca, che è poi il motore dell’aggressività con cui si agisce la brutalità; siamo distanti dai meccanismi biologici dell’aggressività che muove i maschi Alfa di ogni specie animale, istinti finalizzati alla conservazione e all’accoppiamento.

Anche l’uomo contemporaneo si muove in branco ma il maschio Alfa umano, quello che poi si renderà protagonista di azioni efferate, è compulso da gravi fardelli di fragilità, insicurezze, paure represse e inespresse e importanti carichi di frustrazione.
Si muove sostenuto dai meccanismi di rinforzo del branco, dove altrettanta (e più ingente) fragilità si diluisce in un amalgama di cattiveria e indifferenza che sta volgendo sempre più verso la normalizzazione.
I modelli a cui si ispira non lo aiutano: fin dalla più tenera età vi è un’esposizione indiscriminata alla violenza che parte dai videogiochi per diffondersi poi alla musica (si provi a pensare alle espressioni inneggianti all’odio e all’irriverenza del rap con cui si alimentano generazioni di ragazzini), al cinema, alle tendenze e perfino alla moda (anfibi e mimetiche che da foggia militare d’assalto diventano le divise bellicose dei nostri teenegers e corpi disegnati per antropologiche trasformazioni di assetto combattivo).
Chissà che ognuno di noi non sia un po’ responsabile per aver mostrato indifferenza di fronte a piccoli segnali, imberbi sintomi di intemperanza dei nostri ragazzi considerati adolescenti ben oltre l’età della fisiologica ribellione.
Ognuno faccia onestamente un esame di coscienza per tutte le volte che di fronte a piccoli o più seri episodi di prepotenza a cui ha assistito almeno una volta, non si è comportato come il piccolo Willy, che obbediente al richiamo del giusto, ha inteso manifestare dissenso e arginare l’improprietà dell’arroganza.
Una violenza che trova quindi fertilità nelle responsabilità istituzionali probabilmente (istituzioni che nei vari gradi di competenza si dovrebbero preoccupare, ad esempio, di controllare i centri di addestramento alla violenza spacciati per palestre e le persone che li frequentano o porre dei limiti alla divulgazioni di un certo di tipo di musica, di produzioni ludiche o di contenimenti e censure nella rete) ma anche culturali ed educative: perché non si promuove la bellezza delle arti, della poesia, della musica (quella che ingentilisce e addolcisce l’animo e non le grida rabbiose biascicate a ritmi sincopati che con la musica poco hanno a che vedere)? Perché non si ascoltano di più questi giovani disorientati che si muovono a ritmi sempre più veloci nella completa indifferenza di genitori troppo occupati a confrontarsi con realtà virtuali probabilmente più comode?
E per cortesia non vengano strumentalizzate politicamente le più bieche espressioni delle condotte umane; una vastissima gamma di casi esaminati mi ha fatto constatare che poco c’entrano gli sbilanciamenti ideologici, l’esasperazione dei sentimenti, la faziosità o le differenze di religione, orientamento sessuale e colore della pelle.
La violenza trova le sue improvvise quanto imprevedibili espressioni contraddistinte dallo stesso magma di collera, geyser di furia cieca che caratterizzano destra e sinistra, bianco e nero, nord e sud, miseria e nobiltà.

Gianluca Di Pietrantonio, criminologo forense

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