Se la riforma sarà approvata, i parlamentari diventeranno 345 in meno per un risparmio dello 0,005% del debito pubblico. Con il No il Parlamento resterà invariato
Domenica e lunedì prossimi, il 20 e 21 settembre i cittadini italiani saranno chiamati alle urne per esprimersi sulla riforma del taglio dei parlamentari. Il referendum costituzionale è confermativo, il che significa che non è previsto un quorum ovvero la partecipazione alla consultazione della maggioranza degli aventi diritto. Vincerà dunque chi, tra ‘Sì’ e ‘No’, avrà preso più voti validi indipendentemente dall’affluenza.
Sulla scheda il quesito referendario sarà il seguente: “Approvate il testo della legge costituzionale concernente ‘Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari’, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 240 del 12 ottobre 2019?”.
La legge costituzionale è stata approvata l’anno scorso, senza tuttavia avere la maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascun ramo del Parlamento nella seconda votazione. Questo ha quindi consentito a 71 senatori, pari a oltre un quinto dei membri di quella Camera (7 in più del numero minimo richiesto), di chiedere il referendum popolare a conferma della riforma stessa.
Le posizioni nei partiti sono frastagliate: la forza politica compattamente per il Sì (tranne rarissime eccezioni) è il Movimento 5 stelle, ma a favore sono pure la Lega, ufficialmente così schierata dal suo leader Matteo Salvini (anche se negli ultimi giorni hanno fatto notizia alcuni “no” di peso annunciati dal “numero due” Giancarlo Giorgetti, dall’ex ministro Gian Marco Centinaio, dall’economista Claudio Borghi e dall’ex sottosegretario Armando Siri), e Fratelli d’Italia. Un caso a parte è quello del Partito democratico, la cui posizione è stata sancita nella direzione del 7 settembre: ha prevalso la linea per il Sì del segretario Nicola Zingaretti, approvata da 188 componenti. Una maggioranza numerosa, ma che non si traduce in una compattezza assoluta. Alcuni esponenti del Pd hanno annunciato l’intenzione di votare No, come l’ex segretario Walter Veltroni, l’ex presidente della Camera Laura Boldrini, l’ex tesoriere Luigi Zanda, Gianni Cuperlo e Matteo Orfini. Contrari anche alcuni big come Romano Prodi, Arturo Parisi, Giuseppe Fioroni e Rosy Bindi. Dentro Forza Italia Silvio Berlusconi ha criticato la riforma, lasciando però libertà di coscienza: in Parlamento, per il Sì figurano la capogruppo alla Camera, Mariastella Gelmini, e la vicepresidente di Montecitorio, Mara Carfagna, per il No la capogruppo al Senato, Anna Maria Bernini. Anche in Italia Viva l’ex premier Matteo Renzi, che avrebbe voluto legare il taglio dei parlamentari (presente nella sua riforma del 2016, poi bocciata al referendum) ad altri interventi, non ha schierato il partito lasciando libertà di voto: nettamente contrario è Roberto Giachetti, mentre non hanno mai detto la loro big come Maria Elena Boschi, capogruppo alla Camera, e la capo delegazione al governo Teresa Bellanova. Per il No, infine, sono anche +Europa, Azione (il partito di Carlo Calenda) e Leu.
Cosa succede se vincerà il No? E se invece vincesse il Sì? Vediamo gli scenari.
Con il Sì: parlamentari ridotti da 945 a 600
Se vincerà il Sì, la composizione del Parlamento cambierà a partire dalla prossima legislatura. Alla Camera i deputati passeranno dai 630 attuali a 400. Il Senato invece da 315 diventerà a 200 seggi. Saranno ridotti anche i parlamentari eletti dagli italiani all’estero: passeranno da 12 a 8 e i senatori da 6 a 4. Verrà inoltre stabilito un tetto massimo al numero dei senatori a vita nominati dai presidenti della Repubblica: mai più di 5.
A cambiare saranno anche i regolamenti delle due Camere. Ciascun parlamentare avrà poi più peso e responsabilità, in particolare quando si tratterà di eleggere figure chiave quali: cinque giudici della Corte costituzionale, un terzo dei membri del Consiglio superiore della magistratura, il Capo dello Stato e la votazione per la sua eventuale messa in stato di accusa. La composizione delle commissioni parlamentari verrebbe modificata, in termini numerici, subendo un taglio del 36%. Inoltre anche il processo di revisione costituzionale funzionerebbe con un consenso quantitativamente ridotto.
Cosa non cambierà in ogni caso sarà invece il bicameralismo perfetto o paritario. Le due Camere continueranno infatti ad esercitare esattamente le stesse funzioni.
I costi legati alla macchina politica e amministrativa, invece, si ridurrebbero: secondo le stime il risparmio annuo sarebbe di 53 milioni alla Camera e di 29 milioni al Senato ma si tratta di un dato esiguo visto che rappresenta appena intorno allo 0,005% del debito pubblico italianosecondo Pagella Politica.
A quel punto per evitare distorsioni in un Parlamento più piccolo, servirà ricalibrare la legge elettorale in modo da coniugare l’efficacia governativa con la rappresentatività di tutte le aree del Paese, minoranze incluse. Se infatti oggi c’è un deputato ogni 96mila abitanti, con la riforma ce ne sarebbe uno ogni 151mila. Al Senato uno ogni 302mila a fronte di uno ogni 188mila attuale.
Con il No: Parlamento invariato
Se a prevalere sarà invece il ‘No’, resterà l’assetto istituzionale conosciuto fino ad oggi. Ciò non toglie che ci sarà un contraccolpo politico. Sicuramente il successo del No sarebbe uno smacco notevole per M5s, che di questo tema ha sempre fatto uno dei suoi principali vessilli, e che tenta inoltre di “mascherare” nella battaglia referendaria un esito delle parallele elezioni regionali che tutti gli ultimi sondaggi accreditavano come poco soddisfacente per il Movimento creato da Beppe Grillo. Non manca chi si è spinto a ipotizzare (spesso ne ha fatto, anzi, una delle motivazioni alla propria linea contraria) possibile conseguenze nefaste per lo stesso governo guidato da Giuseppe Conte, come lo fu 4 anni fa per Renzi. Ma questo è tutto da verificare da lunedì in poi
(Avvenire)