Al processo per i depistaggi che vede imputati 8 militari, il testimone ricostruisce le manovre per insabbiare la morte del giovane pestato a morte in caserma
Ha raccontato di essersi “arrabbiato” per l’annotazione fasulla che gli avevano fatto firmare in cui “cambiava completamente il senso”. Ha spiegato che era “sotto stress da giorni”, per le continue telefonate che riceveva dai superiori dall’indomani della pubblicazione della notizia della morte di Stefano Cucchi. Ha sottolineato di non essere stato minacciato, ma che nei confronti dei superiori c’era stato “timore reverenziale, perché nell’ambiente militare è così”.
È quanto ricostruito in aula dal carabiniere scelto Gianluca Colicchio, testimone nel processo sui presunti depistaggi compiuti da 8 militari per insabbiare l’inchiesta sulla morte del geometra 29enne.
Il militare era in servizio il 15 e 16 ottobre 2009 alla stazione Tor Sapienza, luogo dove Cucchi fu portato dopo il pestaggio. Fu lui a firmare, insieme al collega Francesco Di Sano (imputato ndr), l’annotazione di polizia giudiziaria in cui si descrivevano le condizioni fisiche di Cucchi. Un atto che poi venne modificato nei giorni successivi minimizzando la gravità dello stato di salute del geometra (nella prima c’era scritto fra l’altro che “Cucchi riferiva dolori alla testa e al costato e di non poter camminare”. Nella seconda che era “dolorante alle ossa per la temperatura fredda e la rigidità della tavola da letto”). La relazione fasulla, disposta secondo il pm Giovanni Musarò per volere di un’intera catena di comando, costituisce oggi il nodo centrale del processo sui depistaggi.
Colicchio in aula ha passato in rassegna proprio quei momenti, ormai risalenti a 11 anni fa.
“Redassi una prima annotazione il 26 ottobre. Il giorno dopo c’era la visita del comandante della compagnia Montesacro (da cui dipende la stazione Tor Sapienza ndr), il maggiore Luciano Soligo. Io ero di piantone. C’era anche il comandante di Tor Sapienza Massimiliano Colombo Labriola. Ci chiamavano a me e Di Sano in una stanza. Prima uno e poi l’altro. Mi avevano già chiesto di fornirgli il formato word dell’annotazione. Ad un certo punto entro nell’ufficio e c’era solo Soligo. Mi mette la copia dell’annotazione davanti. Mentre firmavo ho visto che i caratteri e l’impaginazione erano gli stessi e pensavo che fosse la vecchia annotazione. Poi ho capito che non era così. Non avevo scritto che “lo stato di malessere generale di Cucchi era attribuibile allo stato di tossicodipendenza”. A quel punto chiesi perché. Dissi che non volevo che l’annotazione modificata fosse trasmessa, perché ne disconoscevo il contenuto. Mi passò al telefono il colonnello Francesco Cavallo (ufficiale addetto al Comando del Gruppo Roma ndr). Mi disse “che cambiava di poco””.
La modifica, però, stando alla testimonianza del militare, era sostanziale, perché “stravolgeva il senso di quello che avevo scritto in precedenza”. La sua reazione, a quel punto, è stata tutt’altro che accomodante: “Dopo aver parlato con Soligo, me ne andai arrabbiato. Non strappai l’annotazione perché c’era un superiore davanti a me e non era giusto. E poi comunque c’era un file word e poteva sempre essere modificata”.
Il militare, oggi in servizio in Sicilia dopo il trasferimento del 2019, ha riportato altro:
“Ricordo che subito dopo la pubblicazione della notizia della morte di Cucchi, iniziarono a chiamarmi tutte le mattine. C’era fibrillazione nell’Arma. Io ero stressato. Soligo mi ha chiamato fin dal primo articolo”. Quanto al collega (il carabiniere scelto Di Sano ndr) che, al contrario è accusato di falso, ha raccontato: “Lui come me aveva accumulato nervosismo. Ricordo che doveva andare in Sicilia per la licenza e gli fu bloccata. Perché dovevamo stilare la relazione del 26 ottobre. Lo hanno fatto partire dopo che ha firmato”. Proprio per questo motivo, stando a Colicchio, non prese parte alla riunione al comando provinciale del 30 ottobre 2009: “Chiamarono tutti quelli coinvolti nella vicenda Cucchi. Io e Colombo Labriola. Mandolini e 3-4 dell’Appia. C’era il generale Tomasone. Il colonnello Casarsa. Fummo ricevuti nella sala conferenze. Da una parte c’erano gli ufficiali e dall’altra c’eravamo noi che parlavamo a turno”.
(La Repubblica)