Lettera del presidente del Centro per la salute del bambino Onlus e responsabile del progetto ‘Un Villaggio per crescere’ al direttore di Avvenire
Caro direttore,
da qualche tempo si è accesa la luce sul tema dei nidi, in Italia drammaticamente insufficienti e distribuiti in modo iniquo sia territorialmente sia socialmente. Non dovrebbe essere necessario sottolineare nuovamente i benefici, ampiamente dimostrati da una vasta letteratura scientifica, della frequenza, almeno dal secondo anno di vita, di nidi di qualità, per lo sviluppo cognitivo e socio-relazionale del bambino e quindi del suo percorso scolastico e di vita. Piuttosto, molto poco si è discusso di quanto anche l’ambiente familiare – inteso come conoscenze, attitudini, pratiche genitoriali, ma anche spazi, oggetti, routine – giochi un ruolo determinante nello sviluppo, soprattutto nei primi anni.Anche su questo aspetto vi è una vasta letteratura scientifica che evidenzia non solo la grande influenza dell’ambiente familiare, ma anche, cosa ancora più importante, l’efficacia di programmi che supportino le competenze genitoriali. Su questi programmi, realizzati da molti anni soprattutto in Paesi a reddito medio e alto, vi sono studi condotti con metodologie rigorose che ci dicono che si possono ottenere con interventi relativamente semplici risultati molto significativi anche a distanza di anni, su diverse dimensioni riguardanti il bambino (linguaggio, altre funzioni cognitive, competenze sociali ed emotive), i genitori (minore stress, senso di solitudine e ricorso a forme violente di disciplina; migliori reti sociali e senso di autoefficacia) e sull’ambiente e le relazioni intra-familiari in generale.
L’efficacia è subordinata ad alcuni requisiti: i genitori devono essere coinvolti attivamente assieme ai loro bambini, per far apprezzare loro il piacere e il valore che il bambino stesso attribuisce ad attività affettivamente e cognitivamente ricche, così come per dimostrarne la fattibilità nell’ambiente familiare; l’intervento deve facilitare opportunità di scambio e di relazione tra famiglie, che rappresenta sia un beneficio in sé che un fattore moltiplicatore del cambiamento e creatore di comunità; l’intervento deve essere svolto da professionisti (educatori, psicologi, pedagogisti) e solo coadiuvato da eventuali volontari; l’intervento deve ricevere supporto da e integrarsi con i servizi sanitari, educativi, sociali e culturali, in modo da favorire collaborazione e uniformità di messaggi; gli appuntamenti per il lavoro con le famiglie devono essere pianificati nel tempo di pochi mesi in modo da garantire una sufficiente intensità e devono essere iniziati dopo la nascita, o meglio ancora nel periodo prenatale, con l’obiettivo di coinvolgere attivamente anche i padri. Buoni risultati sono stati documentati a partire da 8-10 incontri per piccoli gruppi di genitori, fino a un massimo di 10 e, come per la frequenza al nido, sono tanto maggiori quanto più basso è il loro livello culturale ed educativo.
Edward Meluish, noto psicopedagogista britannico, a conclusione di una valutazione del programma Sure start, che prevede sia servizi educativi che programmi per genitori, afferma che «l’ambiente di apprendimento familiare può avere un effetto doppio rispetto ai programmi di educazione precoce, il che limita la possibilità di questi ultimi di compensare da soli il divario dovuto al background familiare». Se di un effetto doppio non sembra vi siano ulteriori conferme, di certo ve ne sono molte del fatto che un programma di supporto alla genitorialità può, a un costo che ne consente la realizzazione su larga scala, produrre benefici durevoli nella vita di bambini e delle loro famiglie. Di tutti e in particolare dei più svantaggiati.
Alle luce di queste evidenze, e guidati dalle chiare raccomandazioni recentemente prodotte dall’Oms («Tutti i genitori e gli altri caregiver di bambini da 0 a 3 anni devono essere supportati nell’acquisizione di competenze utili a fornire cure responsive ai loro bambini») dobbiamo potenziare, e molto, i servizi per l’infanzia e le famiglie, con priorità alle aree più svantaggiate e in due direzioni: accesso universale ai nidi accompagnato da accesso universale a programmi di supporto alle competenze genitoriali. Questi ultimi possono essere sviluppati come servizio a sé stante o come parte integrante di altri servizi. La prima opzione ha vantaggi indubbi in quanto favorisce standardizzazione, formazione e valutazione coerenti, in ultima analisi qualità – gli esempi da cui trarre modelli per questi ultimi non mancano, anche in Italia.
La seconda consente di usare spazi e operatori esistenti, e quindi comporta minori costi, e può favorire l’integrazione con altri interventi. Il principio da affermare è che il lavoro con le famiglie deve diventare parte integrante delle politiche e dei servizi per l’infanzia.
(Avvenire)