25 Novembre, 2024
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Welfare, l’economista Stefano Zamagni: «Le persone al centro di un nuovo sistema»

«Non possiamo soddisfare i bisogni delle persone prescindendo dalle loro preferenze circa i modi di soddisfacimento degli stessi bisogni».

Stefano Zamagni cita a memoria il saggio di Keynes “Democracy and Efficiency” (1939). Economista di lungo corso, in Italia e non solo, 77 anni, non ha mai abbandonato l’insegnamento e la ricerca; da un anno e mezzo è presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali per volontà di papa Francesco. Professor Zamagni, perché evoca ancora Keynes.

 

Che cosa può dire al “nuovo Welfare” post-Covid?

«Keynes viene spesso citato, non sempre letto. Il saggio del 1939 è una di quelle letture che mancano a tanti che ne potrebbero fare tesoro. È un saggio fondamentale, che sarebbe utilissimo per ripensare il modello di welfare di oggi. La tesi difesa è che i beneficiari del welfare non possono essere privati del loro bisogno ineliminabile di autorialità».

È tempo di protagonismo anche nella fruizione dei benefici e delle prestazioni di protezione sociale?

«Certo. Gli americani che sono pragmatici lo hanno capito prima. E da oltre sei anni, le imprese più grandi e organizzate hanno istituito una funzione aziendale che da noi non esiste ancora: il chief happiness officer».

Il welfare manager potrebbe diventare il manager della felicità?

«La questione è semplice, anche se vediamo ancora tanta resistenza per ignoranza o per volontà di conservare interessi particolari contrari al bene comune. Il welfare redistributivo non ha più ragione di esistere. Il Welfare state ha svolto e svolge una funzione importante, ma non è più in grado di tener conto della dimensione espressiva. Non basta più preoccuparsi dei soli bisogni materiali, pur sempre necessari, come i farmaci, le cure mediche, o l’insegnamento scolastico. Vedersi attribuire risorse e ricevere prestazioni anche gratuite non basta se ci si sente trattati come “oggetti” di benevolenza pubblica e non invece come “soggetti”».

Il tema è sempre più l’attenzione alle persone. Non è un modo di rifuggire dal problema delle risorse?

«Ma no. Al contrario. È il tema delle risorse che è uno specchietto per le allodole. Parlando di risorse economiche e finanziarie, pur fondamentali, si finisce per occultare la sostanza delle cose. Non basta pagare di più le persone, non basta erogare più sussidi, non basta assicurare benefici di varia natura. Le persone vogliono assicurarsi un loro spazio di espressività, come dicevo prima. Non c’è nessun buonismo dietro all’attenzione alle persone. Potremmo risalire fino ad Aristotele che parlava di eudaimonia: ecco, la fioritura delle persone è l’obiettivo di un nuovo e più civile welfare».

Bisogni esteriori e bisogni interiori, il problema delle risorse non centrale al dibattito sul futuro del welfare, Aristotele: non c’è il rischio di avere un approccio troppo accademico?

«Tutt’altro. Le faccio qualche esempio. Prendiamo il mondo del lavoro. È solo la pigrizia dei manager, più che degli imprenditori, a conservare organizzazioni aziendali di stampo ford-taylorista. La gratificazione di chi lavora è ormai essenziale tanto quanto la retribuzione. L’orizzonte del welfare civile, o delle “capacitazioni” – per tradurre l’inglese “capabilities”, come preferisce dire Amartya Sen – è il futuro. E potrebbe essere già il presente. D’altronde già nel 2000, vent’anni fa, l’Ilo, l’Organizzazione internazionale del lavoro delle Nazioni Unite, ha suggerito che non basta più l’obiettivo del lavoro giusto, quello che assicura un salario equo e un trattamento adeguato alla persona. Occorre puntare al lavoro decente, quello che oltre al salario pone l’attenzione alla valorizzazione del potenziale di vita delle persone che lavorano. Il lavoratore è una persona che ha diritto di trovare gratificazione sul lavoro e nel lavoro».

L’esempio del lavoro ripropone quell’esigenza di autorialità di cui parlava.

«Ma non ho finito. Sempre nella sfera del welfare, pensi alla sanità. Non basta più l’approccio paternalistico che assicura l’erogazione di farmaci e cure. Il paziente non può più essere trattato in modo passivo, che gli preclude la possibilità di contribuire alla definizione del piano di cura che lo riguarda. Il Welfare state non riesce a gestire la co-progettazione e la partecipazione responsabile. La cappa burocratico-amministrativa è sempre più insopportabile. Lo vediamo anche nella scuola. L’obbligo scolastico come obiettivo di welfare non basta più. L’educazione è stata abbandonata a favore dell’erogazione di istruzione, quando va bene. La scuola non può essere una fabbrica dove si fa solo formazione. Deve essere un luogo educativo, che assicura anche il divertimento. Ritorno a citare il greco: skolé vuol dire tempo libero, divertimento».

Ma la fase acquisitiva del Welfare state è essenziale. Non può essere considerata conclusa…

«Anche Keynes aveva preconizzato la necessità di una fase di welfare acquisitivo. Ma aveva chiaro il futuro, nel quale la personalizzazione del welfare sarebbe stata fondamentale. Siamo spesso vittime di trucchi verbali. Come quando si parla di pari opportunità, in relazione al genere. È un trucco che finisce per danneggiare le donne. Si chiede la pari opportunità. No, non basta. Si deve chiedere la parità delle “capacitazioni”, della capacità di agire. Le pari opportunità non bastano se queste non si possono esercitare, mettere in azione».

Professore, torniamo all’orizzonte largo del nuovo Welfare. Anche in questa necessaria evoluzione culturale c’è un ruolo del pubblico che lo mantiene protagonista necessario. Pubblico più del privato. O comunque pubblico e privato insieme, ma come?

«Il modello bipolare pubblico-privato non è più all’altezza delle sfide in atto. È una dicotomia fallace e fuori tempo. Se proprio vogliamo dare un’etichetta dobbiamo dire che il nuovo Welfare è tripolare. Sono almeno tre le dimensioni della rete di protezione sociale che chiamiamo welfare. Tre enti che concorrono, ciascuno con le proprie caratteristiche: pubblico, privato e civile, rappresentato dall’associazionismo, dalle cooperative sociali e dalle imprese sociali, dal volontariato. Sono i corpi intermedi della società, di cui parla l’articolo 3 della Costituzione. La recente sentenza della Corte Costituzionale (131/2020) ce ne dà autorevole conferma».

Si riferisce al ruolo del Terzo settore. Sempre più spesso evocato sulle nuove frontiere del welfare dopo-Covid.

«Più che evocato. Proprio l’emergenza pandemica ci ha insegnato quanto rilevante sia stato l’intervento del Terzo Settore. Se l’Italia è presa a riferimento nella gestione della crisi, in sede internazionale, non lo si deve forse a quanto sono andati facendo gli Enti di Terzo Settore? Ecco perché occorre porre al centro delle attenzioni pubbliche il principio di sussidiarietà circolare. Senza una mentalità sussidiaria – peraltro scolpita nell’articolo 118 della Costituzione – mai avremo un nuovo Welfare».

Eudaimonia, idea di benessere che ha radici nell’antica Grecia

Eudaimonia, che l’economista Stefano Zamagni cita nell’intervista pubblicata in pagina, è il termine greco per indicare la felicità che, nel suo significato originario, va tradotto con l’espressione “avere un buon demone”; ovvero, essere abitati da divinità capaci di assicurarci una vita prospera dal punto di vista materiale. In seguito, grazie soprattutto alla riflessione filosofica, il termine è stato interiorizzato e rivestito di un abito etico. In breve, non si tratta della semplice felicità, ma è la felicità intesa come scopo della vita e dunque come fondamento dell’etica. Talchè i greci associavano l’eudaimonia al fine ultimo dell’esistenza ossia una “vita realizzata, degna di essere vissuta” interpretando il benessere come una particolare condizione in cui le capacità proprie di ciascuna persona possano trovare, nei diversi contesti, espressione e maturazione.

(Il Mattino)

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