Il lavoro agile per i dipendenti della Pubblica amministrazione viene indicato in “almeno” il 50 per cento di coloro che possono svolgere la loro attività a distanza. Per le altre attività professionali, una forte raccomandazione. È questo il punto di caduta contenuto nel Dpcm con le nuove misure di contrasto al Covid firmato dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte e dal ministro della Salute, Roberto Speranza.
Un compromesso dopo che nei giorni scorsi si era parlato di alzare l’asticella fino al 70%, mentre nel testo diffuso nelle scorse ore non c’è una indicazione così stringente. Al terzo comma del terzo articolo, infatti, si legge che “nelle pubbliche amministrazioni” viene “incentivato il lavoro agile con le modalità stabilite da uno o più decreti del ministro della Pubblica amministrazione, garantendo almeno la percentuale” contenuta all’articolo 263 del decreto 34 del 19 maggio scorso. Riferimento al dl Rilancio, che in quel punto disponeva che gli uffici pubblici organizzassero “il lavoro dei propri dipendenti e l’erogazione dei servizi attraverso la flessibilità dell’orario di lavoro, rivedendone l’articolazione giornaliera e settimanale (…) applicando il lavoro agile al 50 per cento del personale impiegato nelle attività che possono essere svolte in tale modalità”. La novità, dunque, è rappresentata dall'”almeno” che potenzialmente amplia l’applicazione del lavoro agile.
Sulla estensione con obiettivo fissato si erano segnalate parecchie polemiche.
Ancora oggi, a Perugia, il segretario della Cgil, Maurizio Landini, sottolineava che dovrebbe esser “compito dei contratti nazionali occuparsi ed affrontare il tema ‘smart working’, ed è una delle richieste che stiamo portando avanti in tutti i tavoli delle trattative”. Materia dello smart working che, per Landini quindi, “non va regolata semplicemente per legge ma nei contratti nazionali di lavoro”. “Anche perché – ha aggiunto – la novità è il fatto che è la stessa persona che si troverà a dover lavorare in presenza e a distanza. È lo stesso lavoratore che dovrà acquisire le competenze per lavorare in entrambe le modalità, pertanto è necessario che queste persone abbiano gli stessi diritti e tutele sia quando lavorano a distanza sia in presenza”.
Sull’ipotesi di ‘quota 70%’ era stato ancor più netto il segretario generale Uil, Pierpaolo Bombardieri, che alla Stampa bollava “l’allargamento dello smart working nella pubblica amministrazione segue il solito schema: è superficiale, senza regole nè criteri di scelta”. Per aggiungere: “Non ci sono ragionamenti sui servizi da erogare nè sui diritti dei lavoratori. E poi, se le cose non funzioneranno, come al solito diranno che il problema sono i dipendenti pubblici fannulloni. Allora fateli rientrare tutti, perchè vogliono fare il loro mestiere al meglio e dare il loro contributo per la ripartenza del Paese”.
Secondo i calcoli sindacali della vigilia del Dpcm, su 3,2 milioni di lavoratori pubblici ci sono 1,2 milioni nell’istruzione e nella ricerca, mentre 648.000 sono impegnati nella sanità e oltre 500.000 sono le forze armate e gli altri dipendenti con un contratto di diritto pubblico, settori nei quali è difficile immaginare lo smart working se non in minima parte.
In pratica possono essere messi in smart working i lavoratori delle funzioni centrali come quelli dei ministeri (circa 234.000) e una parte di quelli degli enti locali (circa 512.000 nel complesso) oltre a una parte residuale degli altri comparti. “Non si può fare una stima precisa – spiegava il segretario nazionale della Fp-Cgil Florindo Oliviero – ma credo che non oltre 400-500.000 possano essere messi in smart. Chiediamo comunque un’interlocuzione per decidere quali sono le attività che si possono ricondurre allo smart working”.
Tornando al Dpcm, nel testo si legge che alle attività professionali si raccomanda che “siano attuate anche mediante modalità di lavoro agile, ove possano essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza”; “siano incentivate le ferie e i congedi retribuiti per i dipendenti nonché gli altri strumenti previsti dalla contrattazione collettiva”; “siano assunti protocolli di sicurezza anti-contagio e, laddove non fosse possibile rispettare la distanza interpersonale di almeno un metro come principale misura di contenimento, con adozione di strumenti di protezione individuale”; siano incentivate le operazioni di sanificazione dei luoghi di lavoro, anche utilizzando a tal fine gli ammortizzatori sociali”.
L’estensione dello stato di emergenza al prossimo 31 gennaio ha di fatto esteso le norme – che sarebbero spirate il 15 ottobre – che agevolano il lavoro agile, evitando cioè il passaggio dagli accordi individuali.
(La Repubblica)