23 Dicembre, 2024
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Berlinguer a Bertinotti: “Al Pd non serve sciogliersi ma una rifondazione”

Autosciogliersi. “Rifondarsi”. “Crescere”. Comunque, non restare fermo a ciò che oggi è. Perché il rinnovamento o è radicale, nella cultura politica e nel modo di organizzarsi, o non è.

Ed è attorno a questa esigenza che Luigi Berlinguer – più volte parlamentare, ministro, membro del Consiglio superiore della magistratura e parlamentare europeo – interloquisce, sulle pagine de Il Riformista, con Fausto Bertinotti.

 

Sostiene Bertinotti: «Solo lo scioglimento del Pd potrebbe aprire a tutti i riformismi e a tutti i riformisti la via di una costituente per un nuovo soggetto politico». È una via percorribile?
È una cosa complicata. Bertinotti è una persona ragguardevole, una persona perbene, seria. E per questo, oltre che per la proposta in sé, che merita una risposta seria. La sua idea potrebbe non avere successo, perché l’invito allo scioglimento deve essere accettato da coloro che sono membri di questo partito, e io credo che non avrebbe successo, o comunque il dovuto ascolto, perché appare una cosa fatta dal di fuori. In più l’esperienza insegna che agli scioglimenti non è che automaticamente faccia seguito una ricostituzione adeguata. Tutti i partiti che fanno parte di questi orientamenti hanno una storia nella quale da una cosa non grande poi qualche volta è venuta fuori una cosa grande. Ma questo si chiama crescita, non rifondazione.

L’esperienza di “rifondare” non la convince?
Non convince perché è sempre un’attività che vede la matrice, la forza costitutiva come esterna. Non è una spinta a far sì che quello che c’è all’interno si rigeneri, stando lì, e quindi punti a crescere sia pure con una radicale rigenerazione. Io rispetto l’idea di Bertinotti che dice: se il Pd rimane Pd, molti di noi non ci stanno e non ha grandi chance di crescere. Però questa preoccupazione, che può anche avere una buona dose di ragionevolezza, non la risolvi nell’affidarti ad una costruzione esterna, che magari avrebbe più difficoltà, comporterebbe più fatica rifare tutto. Lo scioglimento invocato da Bertinotti lo dovrebbe decretare l’intero Pd. Il problema, e che problema, è convincere tutti a fare questo. Il problema sorgerebbe non solo in quella parte a cui va bene il Pd come è, ma anche in quella parte non piccola in cui è forte il bisogno di un rinnovamento profondo, di un adeguamento alle condizioni di oggi. Quello di cui avverto fortemente la necessità, e in questo le analisi di Bertinotti possono essere preziose, è aprire un processo di cambiamento sostanziale. Si tratta di una materia di tipo congressuale che di per sé si rassomiglia allo scioglimento e alla rifondazione, ma è un processo interno. Secondo me ciò che bisogna fare è sviluppare questa discussione all’interno del Pd, che parta da considerazioni autocritiche forti. Non ci basta questo Pd, non ci va tutto bene. E allora discutiamo seriamente quali sono le condizioni di questa “rifondazione”.

Secondo lei da cosa dovrebbe ripartire questa rigenerazione?
Dal fatto che il Pd non può essere solo l’erede di una tradizione genericamente di sinistra. Si tratta di creare le condizioni perché questa forza politica rinnovata, che è altra cosa di “nuova”, sia in grado di prevedere un cambiamento più profondo della società in cui viviamo, che aspiri a crescere e conquistare un consenso talmente ampio da diventare la forza che poi può guidare il nostro Paese in un’altra direzione. Questo significa un rapporto di politica internazionale capace di aggregare altre forze, a partire dall’Europa e, soprattutto, ed è la cosa che più m’interessa, che sia capace di definire la base sociopolitica di questa idea di cambiamento sostanziale. Che cosa sono il progresso e l’eguaglianza in una società come la nostra? Quali sono gli elementi che possono assicurare giustizia sociale nella libertà? Però qui c’è un punto che non lascerei oscuro…

Qual è questo punto?
Per me è l’insegnamento di Palmiro Togliatti, il quale durante il fascismo si rifugiò in Unione Sovietica, perché era il segretario del Pci, sennò in Italia lo avrebbero arrestato o fucilato. Togliatti, il giorno in cui è caduto il fascismo, stava in Unione Sovietica come tutti i segretari dei partiti comunisti occidentali, venne subito in Italia e disse: noi faremo un partito nuovo. Il Pci restava il Pci. Ma Togliatti capì che, insieme alla battaglia per la giustizia sociale, per l’equità, per i poveri, ci doveva essere la libertà. Cosa che nell’Unione Sovietica, dove lui era stato fino al giorno prima, non c’era. In altri partiti che volevano la trasformazione sociale, la giustizia per i poveri, la libertà veniva in secondo piano, e qualche volta veniva sacrificata come in Unione Sovietica. Togliatti non ha accettato questa tesi. In Italia il segretario del Partito comunista diventa il segretario del partito più fortemente ancorato alla libertà. Questo spirito l’ho vissuto da ragazzino e poi crescendo mi sono abbeverato ogni giorno a questa sintesi mirabile fra giustizia e libertà. Questo è il paradigma fondamentale anche di un allargamento del partito. Naturalmente sullo sfondo c’è una grandissima figura in Italia: si chiama Antonio Gramsci. Le due figure non si possono scindere.

Gramsci che per primo definì il partito come “intellettuale collettivo”. Oggi non ci sarebbe bisogno, scioglimenti o meno, di un partito che fosse così gramscianamente inteso?
Quella era un’idea molto suggestiva e affascinante. Perché quando lui diceva “intellettuale”, non significava che uno dovesse diventare un insegnante o uno scrittore o un pittore. Voleva dire che la politica dovesse essere connessa a un fortissimo impegno intellettuale, culturale. Mentre la tradizione diceva che la politica era una roba pratica, che doveva affrontare le varie questioni “materiali”, Gramsci poneva l’esigenza che la politica non fosse altra cosa dal pensiero e quindi da una attività che chiameremmo oggi intellettuale.

Nelle sue considerazioni, Bertinotti pone anche l’accento sulla necessità della definizione di una nuova linea al posto della governabilità…
Qui è necessario operare una distinzione che non è semantica ma sostanziale: la finalità di una forza politica è ottenere i consensi necessari per governare, e non certo quello della pura testimonianza. La “governabilità” è altra cosa e spesso viene fatta coincidere con la mera gestione, magari nel segno dell’efficienza, dell’esistente. Governare significa orientare il potere nella direzione di un cambiamento che tenda a porre fine alle diseguaglianze sociali, o comunque ad attenuarle fortemente, e perché ciò possa determinarsi c’è bisogno intanto di un partito destinato a questo scopo. Ed oggi, pur con tutti i suoi limiti, questo partito è il Pd. Il che non significa rimirarsi allo specchio. Guai se ci adagiassimo nell’autocompiacimento. Il partito deve accentuare la sua azione ed estendere la sua capacità di influenzare l’opinione pubblica italiana, il mondo del lavoro etc.

Questo significa anche aprirsi all’esterno, individuando nuovi luoghi di discussione?
Assolutamente sì. E dove dovremmo chiuderci? Non ha senso. Le iniziative devono essere fatte nel cuore della società, starei per dire nella carne della società. Un partito, nel suo organizzarsi, ha un bisogno vitale di un rapporto permanente con la società. Altrimenti si riduce ad apparato. E questo non va bene.

(Il Riformista)

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