La politica italiana, dopo le recenti tornate elettorali, conferma la sua instabile stabilità. La risposta alla domanda su quale dei due termini dell’ossimoro è destinata ad affermarsi nel prossimo futuro è affidata alla piega che prenderà l’incertezza che, del resto è la cifra che connota questa ormai lunga e opaca fase politica tipica dell’Italia, ma non solo di essa. L’assoluta centralità del governo, ora allargata ai governatori regionali, ha fagocitato ogni dinamica partitica sul terreno istituzionale e l’ha desertificata nel Paese reale. Gli schieramenti e le alleanze tra i partiti si contendono il governo, esaurendo nella contesa ogni altro elemento della politica, fino alla scomparsa sulla scena degli elementi fondamentali, come gli aspetti ideologici, programmatici e addirittura gli elementi che connotano la natura di una formazione politica. Chi sta al governo lo fa per continuare a rimanerci e chi sta all’opposizione lo fa per giungervi. Tutto qui.
Il quadro europeo, nella sua nuova conformazione assunta nel contrasto al Covid, rafforza il processo in atto. Il declino della tendenza politico-culturale vincente sino a ieri – una nuova destra fondamentalista, populista e reazionaria – sposta ulteriormente il baricentro della contesa sul governo, sempre più, a sua volta, sequestrato nella sfera amministrativa. Se il populismo voleva la fine della contesa classica tra destra e sinistra, il primato dell’amministrazione, che ad esso sembra subentrare quale tendenza prevalente, concorre allo stesso fine. È più precisamente la fine della politica per come si era venuta affermando in tutta la modernità. Nel campo del governo, nel nostro Paese, si sono venuti affermando due propensioni diverse, ma convergenti. Alla crisi del populismo di destra, in parallelo ad essa, si è aperta in termini ancora più esplosivi la crisi del populismo trasversale, quello personificato da Grillo e poi vissuto nei Cinque Stelle. Mentre il centrodestra è investito dal tema della sua ristrutturazione, il Pd è così risultato, per via di un processo prevalentemente alimentato da fattori esterni, il centro dell’attuale fase della governabilità, un centro immobile. L’immobilità e persino una certa sua afasia sono proprio quello che consente la tenuta elettorale del Pd, nella morte però della politica.
Le previsioni di un suo dissolvimento, con la condivisione della sorte toccata al Partito socialista francese, sono state smentite dai fatti. Il rischio si era reso evidente con il crollo di molti dei capisaldi storici che gli avevano garantito il consenso elettorale, a cui era seguita quel che è stata chiamata “la nuova contendibilità” delle sue grandi casematte regionali. La storia politicamente e culturalmente devastante ha condotto, anche in quelle realtà, da una condizione caratterizzata da un popolo innervato sul Pci e sulle istituzioni del Movimento operaio ad aggregati informi di individui-cittadini. Essa ha reso possibile quel gigantesco smottamento e ha fatto avanzare anche l’ultimo rischio. Anche senza far ricorso alla massa di saggi storici e sociologici sul tema, basta la lettura dell’ottimo lavoro di Mario Caciagli sul Valdarno, Addio alla provincia rossa, per farsene una ragione, seppure drammatica. Ma il Pd esce dalle ultime elezioni potendo vantare una tenuta, se non un’inversione di tendenza. Dunque, proprio l’immobilità ha favorito la conservazione del consenso popolare. Il declino dell’estrema destra salviniana non ne ha cancellato la minacciosità e il Pd ha finito in ogni caso per rappresentare, rispetto ad essa, un argine rassicurante. La centralità assunta nelle contese regionali, dai presidenti divenuti sul campo governatori, ha opacizzato la contesa tra i partiti, già radicalmente ridimensionati nel ruolo pubblico e nella percezione popolare.
Il Pd si è fatto il sostenitore meno problematico delle candidature presidenziali, a partire da quelle rivelatisi vincenti. I residui degli insediamenti storici, le tracce rimaste, incontrano il terzaforzismo nascente di ciò che Thomas Piketty ha chiamato «la sinistra intellettuale benestante». Da noi, le zone ztl sono ormai diventate una categoria della politica. Ma è il teatro dei morti che camminano. La loro incidenza sulla vita delle persone, sulle dinamiche del conflitto sociale di classe, sulle scelte di politica economica, che contribuiscono a costruire il futuro del Paese e dell’uomo, sui rapporti tra i popoli e i Paesi del mondo è pressoché nulla. Così la politica esce dal vissuto del popolo e muore mutandosi in semplice amministrazione. Sappiamo bene che la sua rinascita batterà strade ora sconosciute e che l’imprevisto da cui essa scaturirà alloggia in ogni caso nel corpo del conflitto sociale, piuttosto che nel cielo della politica. Ma quel che accade nella politica-politica, anche nel tempo della sua grande crisi, non è del tutto trascurabile né rispetto alla questione democratica, così acutamente aperta, né sui problemi di società, a partire da quello decisivo delle diseguaglianze.
Il Pd è risultato vivo elettoralmente, ma resta muto e privo di incidenza politicamente. La causa prima risiede proprio in sé stesso, nella sua forma concreta e nella sua sostanza politica. La lunga parabola discendente della sinistra l’ha ridotto alla sua materiale e fisica esistenza, e il governo l’ha ingoiato. Nel dopoguerra, prima della rottura storica, la sinistra è stata partito di lotta, poi nella transizione, partito di lotta e di governo, infine, partito di governo e del governo. Questo esito ha connotato il Pd nel profondo, in esso vivono anche esperienze interessanti, militanti impegnati, dirigenti rispettabili. Non cambia niente. Il partito resta muto politicamente e immobile. La ragione di fondo è che la sua traiettoria e il suo attuale esito ne abbiano dettato l’intera costituzione materiale, sicché il Pd è diventato irriformabile. Tutto il campo, che in termini mal definiti possiamo chiamare “riformista”, vi fa riferimento anche criticamente, e in ogni caso, soggetti quandanche separati organizzativamente non possono prescindere dalla sua esistenza elettorale. Lo stallo investe così l’intero campo riformista.
Non vedo altro modo di sbloccarlo che quello di produrre in esso una rottura, una rottura che non potrebbe che investire in primo luogo la sua forza principale, il Pd, la forza immobile. La parola che la esprime è forte, ma credo che sia indispensabile alle forze riformiste per tornare ad essere un soggetto politico protagonista della storia politica del Paese. La parola è “autoscioglimento”. Può sembrare una beffa perché scioglimento è il recupero, su tutt’altro terreno, di un termine che mise fine alla storia di un grande partito e non è stato l’inizio di quell’altra storia che i suoi sostenitori avevano annunciato. La discontinuità tra le due storie è radicale e definitiva. Si tratta ora di altro. Si tratta di rompere un vincolo che impedisce di prospettare il futuro di una soggettività politica che, sempre con qualche forzatura, chiamiamo riformista. Da tempo c’è una metafora, quella della mossa del cavallo, cui si ricorre troppo spesso. In questo caso il ricorso ad essa sarebbe però pertinente. La mossa aprirebbe una diversa prospettiva, brucerebbe ogni rendita di posizione, compresa quella degli attuali gruppi dirigenti; impedirebbe di sostituire alla ricerca di una linea politica la ricerca delle alleanze per governare; manderebbe in soffitta le immagini dei padri scelti per avvallare una politica, quella di centrosinistra, immagini tra le tante, anche più pericolosamente promettenti, di una storia conclusa ma a cui si sarebbe potuto attingere.
Restituirebbe infine a tutti coloro che volessero partecipare a quel processo la titolarità delle scelte politiche costituenti. Solo lo scioglimento del Pd potrebbe aprire a tutti i riformismi e a tutti i riformisti la via di una costituente per un nuovo soggetto politico. Due potrebbero essere, in prima approssimazione, gli orizzonti tra cui la costituente dovrebbe avviarsi. Una più interna alla storia politica europea, l’altra debitrice da esperienze d’oltreoceano. La prima potrebbe essere di scuola neo-mitterandiana, la formazione cioè di una nuova forza socialista, ma di questa ipotesi non se ne scorgono neppure i segni lontani nell’intero campo riformista; la seconda potrebbe guardare più all’America di oggi, con la configurazione di un grande campo liberal-democratico, aperto a destra ai fruitori del primato del mercato e a sinistra fino alle forze in grado di riusare il termine socialista. Due orizzonti tra i tanti che solo una costituente di popolo e di ricerca potrebbe restituire vivi nel campo dei riformismi. Una costituente sarebbe il banco di prova della possibilità di vita, peraltro nient’affatto scontata nell’attuale realtà del mondo ed europea, di una forza riformista nell’attuale fase storica.
Essa dovrebbe lavorare alla definizione di una sua ideologia – se la parola non spaventa – a una propria strategia, a un proprio programma, a una propria e originale forma di organizzazione. Se il campo politico fosse quello di tutti i riformismi, quello sociale sarebbe da costruire sia nella definizione dei soggetti sociali privilegiati, fuori della falsa retorica secondo cui lo sarebbero i cittadini tutti, sia nella individuazione delle prassi politiche e sociali da adottare con essi e in rapporto ad essi. “Vaste programme”, avrebbe detto il generale Charles De Gaulle. E ancora, resta fuori da questo schema il campo di chi si professa dichiaratamente anticapitalista, un campo che tuttavia non è, in particolare nelle realtà sociali, tutt’altro che fuori dalla contesa, e che anzi potrebbe rilanciarsi proprio nella ricostruzione di una contesa storica con l’ultimo capitalismo. Ma questo è un altro discorso…
(Il Riformista)