Più che una intervista, quella concessa da Mario Tronti a Il Riformista è una lezione di politica, svolta da chi non riduce la politica ad analisi superficiali, a battute e spot.
Considerato uno dei fondatori dell’operaismo teorico degli anni Sessanta, le cui idee si trovano riassunte nel libro del 1966 Operai e capitale, Tronti ha insegnato per trent’anni all’Università di Siena Filosofia morale e poi Filosofia politica. È stato eletto in Senato nel 1992 nelle fila del Partito democratico della sinistra e nel 2013 nelle fila del Partito democratico. Dal 2004 è presidente della Fondazione Crs (Centro per la Riforma dello Stato) – Archivio Pietro Ingrao. La forza del suo pensiero è nella nettezza delle posizioni assunte e nelle argomentazioni addotte. Leggere, per credere.
Molti si sono cimentati, dopo la tornata elettorale del 20-21 settembre, nel gioco, sempre in voga, del “ho vinto io, ha perso lui”. Volendo andare più in profondità, e fuori dalla propaganda, quali sono, a suo avviso, i dati politici più significativi del voto?
Penso che dovremo disporci a guardare oltre, magari spingendo lo sguardo più lontano. Se è vero o se è probabile che si arrivi alla fine naturale della legislatura, è da qui al 2023 che converrebbe programmare l’agenda politica. Mettendo in conto possibili incidenti di percorso per una maggioranza di governo non proprio solida. È giusto sottolineare le due priorità: uscita dall’emergenza Covid e impegno per la ripresa economica, spendendo bene le risorse economiche europee, tutte. Sottolinierei una terza priorità: riassestare il terreno della politica, attualmente molto dissestato, con presenza metaforicamente di buche, frane, ponti da mettere in sicurezza, viadotti da costruire ex novo.
Da più parti si è detto e scritto che il combinato disposto tra il voto alle regionali e quello sul referendum per il taglio dei parlamentari, abbia determinato un rafforzamento del governo Conte. E c’è chi si è spinto oltre, ipotizzando un’alleanza strategica tra il Partito democratico e i 5Stelle…
La voce dal sen fuggita dell’attor comico garante del gruppo attualmente più consistente nel Parlamento, che non crede più nella democrazia parlamentare, non è la battuta per far ridere il pubblico in uno spettacolo. E’ il serio disvelamento, a urne chiuse, di ciò che c’era dietro la proposta più che demagogica del taglio dei parlamentari. Si è detto che quel 30% di No segna una battuta d’arresto e un’inversione di tendenza rispetto al dilagare dell’umore antipolitico di massa. Lo è solo se diventerà l’inizio di una controffensiva condotta con piena coscienza dalle forze politiche che pienamente si riconoscono nella tradizione della Costituzione formale, in opposizione all’attuale Costituzione materiale.
Ma l’antipolitica è giunta davvero al capolinea?
Se non si prosciuga non si bonifica, quella palude dove si produce e riproduce la febbre malarica, nemmeno del rifiuto ma del vero e proprio odio nei confronti della politica, cioè della sfera pubblica, cioè delle istituzioni appunto rappresentative, non c’è speranza di ripartenza neppure nello sviluppo economico e nella crescita civile del paese. E non c’è possibilità per la rinascita di una sinistra riconosciuta come tale. Perché la sinistra è la politica. Come lo è anche una destra seria e responsabile. Delegittimare la politica è la strada maestra per distruggere le forze politiche. Cosa puntualmente avvenuta. Di questo in questi anni non si è voluto prendere coscienza. Ma davvero si crede che la gran quantità di quei Sì al referendum, nelle periferie, nel profondo sud, nelle zone emarginate e dimenticate, voleva rendere più efficiente i lavori del Parlamento? Era semplicemente l’adesione convinta a quel manifesto dei promotori del Referendum che vedeva una poltrona con sopra un segno di croce che la cancellava.
È la logica populista?
Non è questione di populismo. Il populismo è una cosa seria. Ha dentro la radice “popolo”. Alzare il sopracciglio elitario per combatterlo è la cosa politicamente più sbagliata che si possa fare. Ne vanno capite le profonde ragioni sociali, luogo per luogo, tempo per tempo. Nel caso dei “grillozzi”, come li chiamava sapidamente Giuliano Ferrara – e francamente non capisco per una testata così intelligente come il Foglio questa recente conversione al miserabilismus del contismo – no, lì si tratta di squallido qualunquismo demagogico, à la carte delle convenienze del giorno. Queste elezioni regionali hanno fatto vedere quello che era facile percepire. Possono esserci spostamenti di consenso dai 5Stelle quando il Pd è capace di presentare una candidatura forte e credibile. Non funzionano gli accordi elettorali di vertice su compromessi a tavolino: Liguria docet, Umbria docuit. I due elettorati non sono sommabili dall’alto, su indicazione degli stati maggiori. E poi, il movimento è in autodissolvimento, come capita rapidamente a tutti i movimenti di questo tipo. Il Pd, per guadagnarsi il suo famoso campo largo, ha tutto l’interesse che quel pezzo di terreno venga liberato da questa falsa rappresentanza.
Il Partito democratico, per l’appunto…
È soprattutto qui che lo sguardo politico ha bisogno di misurarsi con una prospettiva finalmente strategica. In fondo è un organismo abbastanza giovane, tuttora adolescente, deve imparare a sapere che cosa fare da grande e convincersi che la maturità è tutto. Ha ragione Goffredo Bettini a consigliare ai cespugli di ispirazione liberaldemocratica a unificarsi, per presentarsi utilmente agli elettori con una forza significativa. Dovrebbe proseguire il ragionamento: offrire a una tale aggregazione il soccorso bianco di una parte dell’attuale Pd. Non si sa bene se i moderati esistono ancora. Se ci sono, non sono tanti. È sicuro che molti sono oggi gli arrabbiati, di destra e di sinistra. È a questi che dovrebbe mirare a dare rappresentanza e rappresentazione, un partito che solo così potrebbe ripresentare e rivitalizzare una sua vocazione maggioritaria. Perno, certo, di una coalizione, che prenda in mano la bandiera di una modernizzazione alternativa, di sviluppo equilibrato, di crescita economica e sociale, che mostri di saper superare concretamente le disuguaglianze di classe, di ceto, di territorio, di generazione, di genere. Una potenza modernizzatrice delle strutture e risanatrice delle ingiustizie può offrirla solo una forza politica riconoscibile come autenticamente popolare.
Se a sinistra si volesse andare oltre l’orizzonte del “primum vivere”, da cosa si dovrebbe partire?
La sinistra non può vincere se non toglie voti di popolo alla destra. A questa destra di oggi, che in Italia non è mai stata così forte. Non merita questo consenso di massa, che dal centro di una volta si è spostato a destra, proprio perché i moderati sono diventati arrabbiati. Allora il Pd non può chiudersi nel fortilizio del politicamente corretto, deve esporsi in combattimento sul campo del socialmente scorretto: che è quella parte di società storicamente di sinistra che occasionalmente vota a destra. Uno slogan del Pd dice: dalla parte delle persone. Occorre dire poi: quali persone. C’è una figura simbolica che squarcia il velo della situazione più di tante analisi sociologiche: è la figura dell’operaio che sta in piazza con la Cgil e nell’urna con la Lega. Non ci si può rassegnare a questo dato di fatto come a una fatalità. Ha delle cause che vanno rimosse. E’ necessario dunque capire che alcuni temi agitati dalla destra non sono di destra: il bisogno di protezione, la garanzia di sicurezza, per i più deboli, il problema immigrati da risolvere e non da declamare, la cura di tradizioni territoriali e anche nazionali. Ma allora bisogna cambiare pelle, cambiare faccia, scrollarsi di dosso l’immagine di essere establishment. Sento rincorrersi voci su Zingaretti nel governo. Sarebbe un grave errore. A fare che? Da spalla a Conte? Magari alla pari con un qualunque Di Maio? Siamo seri! La buona delegazione del Pd al governo faccia il suo lavoro. Il leader di un grande partito, se si vuole essere un grande partito, può entrare a Palazzo Chigi solo come premier. Il segretario talloni quotidianamente il governo, come sta facendo. Ma non tralasci di occuparsi quotidianamente del suo partito, che ne ha estremo bisogno.
Ma non dovrebbe essere questo uno dei compiti prioritari, se non il compito, di chi è chiamato a guidare una forza politica?
Fin qui tutti i segretari di partito, del Pd e di quelli che lo hanno preceduto, di tutto si sono occupati fuorché del partito. Le conseguenze le vediamo. Il partito come organizzazione, perché questo è il partito, non c’è, non c’è nel paese, viene percepito nella filiera esausta dei suoi gruppi dirigenti, centrali e locali. La rottamazione fu una brutta parola. Ma ci sono belle parole, come ricambio, aggiornamento, una volta si diceva “rinnovamento nella continuità” e quando si diceva, si faceva. C’è bisogno di energie fresche, non gravate dalla sindrome delle sconfitte, una nuova leva generazionale, da prendere dentro ma soprattutto fuori, da esperienze di movimento e di aggregazione, il tutto tradotto in politica. Conosco l’obiezione: si vuole allora tornare al Pds-Ds? Niente affatto. Il Pds, e soprattutto i Ds, non erano niente di diverso dal Pd di oggi. Erano sempre centrosinistra senza trattino, al governo o all’opposizione, con il centro che viene prima e la sinistra dopo. Con la conseguente ricerca del papa straniero. Forse solo oggi è possibile una grande sinistra autonoma, che si faccia coalizione di sinistra-centro, contro una coalizione ormai di destra-centro.
(Il Riformista, 29 Settembre 2020)