Il quadro è fosco. La rappresentanza scivola in rappresentazione ed è surrogata dalla governabilità;
il Parlamento è ridotto al ruolo di organo di ratifica; le scelte politiche sono sempre più eterodirette e incanalate in rigidi parametri economici assunti come dogmi; la discussione e la formazione di norme attraverso processi di integrazione e mediazione politica cedono alle imposizioni della governabilità; i partiti politici, da veicolo fra società e istituzioni e organizzazione in forma collettiva di rivendicazioni e visioni del mondo, divengono partiti liquidi, leggeri, catch all, appiattiti sulle istituzioni, tesi alla propria riproduzione, governati dal leaderismo, comunicanti attraverso slogan o tweets.
È un processo che parte ormai da lontano; per citare solo qualche passaggio: nel 1975 la Trilaterale lamenta l’eccesso di democrazia; degli anni Ottanta è la svolta (non solo italiana) in senso neoliberale; nel 1993 è adottato un sistema elettorale maggioritario; del 2013 è l’emblematica critica della J.P. Morgan alle Costituzioni dei paesi del Sud Europa, per la debolezza degli esecutivi e l’eccessiva tutela dei lavoratori e del diritto di protesta. Elementi eterogenei, quelli appena citati, ma che restituiscono l’intensità del processo che sta svuotando la democrazia, come democrazia politica, economica e sociale, i tre profili che, non a caso, la Costituzione associa.
Che fare? Occorre ripartire dal cuore della Costituzione, l’art. 3, secondo comma, assumendo come obiettivo «l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»,
ovvero occorre mettere al centro la partecipazione come essenza della democrazia nella pluridimensionalità con la quale è scritta nella norma costituzionale. Questo significa reagire su più fronti.
La crisi del Parlamento è parte di una degenerazione più ampia della democrazia, che la revoca in dubbio anche nella sua declinazione economico-sociale. Pensiamo alla deregolamentazione nel mondo del lavoro, che contraddice la tutela dei lavoratori e l’idea stessa di una Repubblica fondata sul lavoro inteso come strumento di dignità ed emancipazione; alla contrattazione aziendale – per restare alle relazioni industriali – che sostituisce quella a livello nazionale prevista dalla Costituzione per contrapporre la forza del numero, per dirlo con Mortati, alla forza di chi possiede i mezzi di produzione; pensiamo, in senso ampio, alla regressione nella garanzia dei diritti sociali (quanto mai evidente oggi, in epoca di epidemia, in relazione, ad esempio, all’abbandono della medicina territoriale).
Restando alla democrazia politica, rivitalizzare il Parlamento implica, in primo luogo, una doppia azione: da un lato, occorre che esso ritrovi rappresentatività, capacità di rispecchiare il pluralismo e i conflitti che attraversano la società; dall’altro lato, è necessario che riacquisti autonomia e potere nei confronti del Governo. Sono due profili connessi: un Parlamento più rappresentativo, innestato nella società, può essere anche un Parlamento in grado di esercitare un ruolo più incisivo nelle proprie funzioni.
Mi limito a due esempi. Primo. Modificare il sistema elettorale, introducendo una formula proporzionale,
un sistema proporzionale puro, effettivo, senza soglia di sbarramento, senza liste bloccate, per favorire l’effetto “specchio della realtà”, l’emersione delle minoranze e incoraggiare la partecipazione di chi non si sente ora rappresentato. Secondo. Intervenire sui regolamenti parlamentari, non solo come atto dovuto a seguito della riduzione del numero dei parlamentari, ma per superare gli eccessivi poteri del Governo, ad esempio in relazione ai maxiemendamenti e alla questione di fiducia; per assicurare uno spazio adeguato alle minoranze, ragionando di creazione di uno statuto effettivo delle opposizioni (si sottolinea, al plurale); per rafforzare la possibilità che il Parlamento sia luogo di discussione e confronto, agendo ad esempio sui contingentamenti eccessivi dei tempi.
Adottare un sistema elettorale proporzionale e dotare il Parlamento di strumenti in grado di recuperarne la dimensione quale luogo di discussione e adozione di scelte politiche e norme, rafforzandone il ruolo, tuttavia non è sufficiente. È la stessa Costituzione che ricorda l’imprescindibilità di ragionare in termini di effettività e in quest’ottica centrale è in primo luogo un ragionamento sui partiti politici. Il partito è un soggetto collettivo intrinsecamente ibrido, sospeso fra società e istituzioni, con il compito di contribuire alla realizzazione di un’osmosi fluida tra i due elementi e alla determinazione della politica nazionale. Oggi il rapporto del partito con la società si può qualificare come “primitivo”: il partito tende a blandire i cittadini – in realtà sempre più sudditi – con promesse e letture che semplificano la realtà, o si limita a sfruttare, quando non a fomentare, gli umori più immediati che percorrono la collettività, con il fine di autoriprodursi in un orizzonte autoreferenziale. I movimenti sociali, il mondo dell’associazionismo, non trovano più un interlocutore che traghetti le loro istanze nelle istituzioni; per tacere del fatto che sempre più spesso il dissenso che essi esprimono è represso (inasprimento delle pene per le occupazioni, reato di blocco stradale, diffuso ricorso a misure cautelari e di prevenzione).
Occorre che i partiti ri-partano da una presenza nella società, strutturando in forma collettiva,
e all’interno di una concezione del mondo, idee e bisogni, veicolando rivendicazioni sociali ma anche “educando” e orientando, ovvero svolgendo una funzione rappresentativa ma anche di indirizzo. In tal modo possono trovare voce il pluralismo e la conflittualità che attraversano la società.
Fantapolitica? No, ma sicuramente la rotta sulla quale sono indirizzati i partiti politici è difficile da invertire: entra in gioco la questione, di ascendenza gramsciana, circa l’assonanza esistente tra forma-partito e forma-impresa o, in senso più ampio, il ragionamento sulla correlazione esistente fra i mutamenti intercorsi nella struttura economica (semplificando, dal modello fordista a quello post-fordista del finanzcapitalismo globale) e la metamorfosi del partito politico.
Pare ingenuo ragionare di configurazione dei partiti, o della loro democrazia interna, se non si leggono le loro trasformazioni come parte di un contesto dove è mutato il modello di capitalismo e sono profondamente cambiati i rapporti fra politica ed economia, con una radicale inversione dell’influenza d’indirizzo e regolativa, ormai appannaggio della seconda. In particolare, è evidente il ruolo che nella metamorfosi del partito gioca, a partire dagli anni del liberismo thatcheriano e reaganiano, la progressiva negazione del conflitto sociale. E, allora, tornando all’incipit di questo discorso, per concludere, è necessario recuperare la connessione fra i differenti profili della democrazia. Rilanciare la democrazia politica, il parlamentarismo, non può prescindere dalla considerazione del contesto economico-sociale e dalle misure che concretizzano la democrazia sociale ed economica, muovendo da quelle che incidono sul conflitto sociale riequilibrandone i termini: diritti sociali, progressività del sistema tributario, diritto del lavoro ex parte lavoratore.
(Volerelaluna)