8 Novembre, 2024
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Covid e statistica. Ecco perché chiudere le scuole non è la soluzione migliore

È davvero possibile identificare una relazione di causa-effetto tra la riapertura delle scuole e l’aumento dei contagi? Le ricerche scientifiche sul tema non forniscono conclusioni univoche

Davvero la scuola, e i nostri ragazzi che quotidianamente la vivono, sono la causa principale di questa nuova ondata di contagi e delle conseguenti e gravi crisi sanitaria ed economica? Se così fosse, si dovrebbero chiudere le scuole, e immediatamente. Ma abbiamo la certezza che fermare la regolare attività scolastica, come si è fatto con le attività sportive e ricreative, sia la soluzione? Sui social e sui giornali ognuno dice la propria, perché tutti, in qualche modo, viviamo la quotidianità della scuola sulla nostra pelle.

Cosa ci dicono però i dati? È davvero possibile identificare una relazione di causa-effetto tra la riapertura delle scuole e l’aumento dei contagi? Ricercatori italiani e stranieri stanno provando a fornire risposte, affinché le scelte politiche siano supportate da evidenze empiriche e non siano frutto di opinioni, interessi contingenti e valutazioni approssimative.

Le varie ricerche scientifiche sul tema, tuttavia, non forniscono conclusioni univoche.

Ad esempio, Richard Beesley, elaborando dati aggregati per diversi Paesi, conclude che tra le quattro e le otto settimane successive alla riapertura delle scuole si è registrato un aumento dei contagi. È un risultato oggettivo, verificabile in più Paesi, ma è sufficiente a sostenere che l’impennata nei contagi sia causata dalla riapertura delle scuole? La risposta è: no. In Italia, ad esempio, negli ultimi mesi siamo passati da fare 30mila tamponi al giorno a farne quasi 200mila. Questo ha un chiaro impatto sul numero dei nuovi positivi: più cerco, più trovo. Inoltre, contemporaneamente alla scuola, hanno riaperto gli uffici e siamo tornati a una vita normale. Perché, quindi, imputare alla scuola una responsabilità che non è dimostrata?

Ricercatori tedeschi arrivano a conclusioni diametralmente opposte: la riapertura delle scuole non ha fatto aumentare i casi di Covid-19, quando siano state messe in atto opportune misure igieniche e di distanziamento. Notevole attenzione mediatica ha riscontrato un articolo apparso sulla prestigiosa rivista The Lancet in cui, analizzando dati – sempre a livello aggregato – relativi a ben 131 Paesi, emerge l’evidenza che chiudere le scuole riduca il rischio di contagio. Finalmente una ricerca pubblicata su una prestigiosa rivista ci dice cosa dobbiamo fare: chiudiamo le scuole! Già, ma bisogna saper approfondire le ricerche scientifiche senza fermarsi al sommario. Ad esempio: come si è tenuto conto delle diverse caratteristiche (la cosiddetta eterogeneità) dei 131 Paesi? E ancora: le assunzioni poste a base del modello sono aderenti al fenomeno analizzato? Ora, per chi non è avvezzo alla statistica, la possibilità di applicazione di un modello allo scopo di analizzare dati appare un’attività scontata, ma ogni modello si fonda su delle assunzioni. Purtroppo l’articolo pubblicato non fornisce informazioni circa la verifica delle assunzioni del modello, indispensabile affinché ci si possa fidare dei risultati ottenuti. Il problema è che l’indice Rt (usato per capire quanto velocemente si propaga il virus), sul quale si basa la ricerca, non è una quantità che osserviamo, bensì una stima e come tutte le stime porta con sé un’incertezza. A pagina 10 dell’ultimo rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità si legge, ad esempio, che in Molise l’Rt viene stimato intorno a 1,5 ma con un intervallo di confidenza che varia tra 0 e circa 3. Il lettore comprenderà che considerare la stima puntuale di Rt come valore di riferimento per condurre una qualsivoglia analisi, ignorando la sua variabilità/incertezza, può essere fuorviante. Da statistico non avrei mai potuto accettare un articolo che ignora completamente un aspetto così rilevante e cruciale.

Com’è possibile che tale ricerca sia stata pubblicata su una rivista così prestigiosa?

Purtroppo le buone intenzioni che stanno dietro la volontà di fornire basi scientifiche a decisioni politiche hanno reso il mondo della ricerca un grande social network. Il sensazionalismo e la ricerca dello scoop hanno contagiato le riviste scientifiche. La comunicazione in quest’ambito è diventata notizia comune, “veloce” e, a volte, guidata dal desiderio del clamore della popolarità. Un lavoro scientifico di qualità, che abbia un impatto, necessita di un elevato grado di affidabilità e, generalmente, richiede molto tempo, molto lavoro, molto confronto e una elevata mole di dati.

Siamo quindi nuovamente al punto di partenza, cercando ancora evidenze dell’impatto della scuola sul propagarsi dell’epidemia.

Lavorare utilizzando dati aggregati non si è rivelato utile, a causa delle eccessive differenze tra i Paesi: c’è troppa eterogeneità di cui tener conto e i dati a disposizione non sono ottimali per questo genere di analisi. Dare una risposta alla nostra domanda sull’utilità o meno di chiudere le scuole richiede perciò dati disaggregati, individuali e ricerche su piccole aree attraverso questionari e monitoraggio. A livello europeo spunti interessanti sono forniti dai lavori di Vlachos et al. e di Head et al. Entrambi gli articoli si concludono con la stima di un aumento del rischio di contagio per gli insegnanti, mettendo così in risalto una ulteriore criticità, spesso non discussa. D’altra parte, però, l’impatto della chiusura delle scuole sul contenimento dell’epidemia è stimato pari a quello della chiusura dei luoghi di lavoro e, soprattutto, del distanziamento fisico. E allora: perché chiudere le scuole, se il distanziamento porta agli stessi risultati? Inevitabilmente, ogni misura di contenimento comporta dei costi economici e sociali e la scelta diventa essenzialmente di natura politica. La cessazione delle attività scolastiche ha costi futuri notevoli, che non osserviamo nell’immediato, ma che non possiamo ignorare. È evidente che serrare i luoghi di lavoro equivale a bloccare nuovamente l’economia, già messa a dura prova durante la prima ondata, ed è oggettivamente impraticabile, ma altrettanto non lo è imporre e far rispettare misure di distanziamento. Chiusure territoriali, mirate e di breve durata, possono avere effetti sostanziali sul contenimento dell’epidemia. Chiudere le scuole, senza un supporto scientifico sui risultati nel contenimento dell’epidemia, comporta solo effetti negativi di lungo termine.

Cerchiamo risposte “certe”, ma senza dati è difficile, se non impossibile. Un nuovo modello di condivisione delle informazioni è necessario.

La disponibilità di dati è la base per costruire modelli metodologicamente corretti che consentano ai governi di prendere decisioni informate.

Chiudere le scuole non è la soluzione migliore, ma è di certo la più semplice, soprattutto per coprire inefficienze di altro genere.

Professore ordinario di Statistica, Università Lumsa

(Avvenire, Antonello Maruotti)

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