La paura dei malati isolati. La consolazione di ricevere una carezza, o un sorriso, almeno con lo sguardo. E poi c’è il dolore delle famiglie. Parlano i preti che sfidano il contagio per i fratelli
La paura di morire da soli, senza una persona cara accanto. La consolazione di ricevere una carezza, o un sorriso, almeno con lo sguardo. I cappellani degli ospedali, da quando è iniziata la pandemia, di persone morte per Covid ne hanno viste tante, troppe.
Ora che il numero dei contagi aumenta e i malati che riempiono le terapie intensive sono sempre di più, in mezzo a tutto quel dolore vogliono esserci ancora, anche se rischiano il contagio. Perché a quel dolore bisogna dare una risposta, una consolazione. E nei momenti di sofferenza e angoscia ci si può afferrare solo alla prossimità di Dio, che passa per il loro tramite. L’approssimarsi del 2 novembre mette di fronte a tante domande, come questa: cosa stiamo imparando dall’irruzione della morte per effetto del virus?
Don Luca Casarosa, cappellano del Nuovo ospedale Santa Chiara di Pisa Cisanello,
da marzo a oggi di persone poi morte per Covid ne ha accompagnate più di 130. Anche giovani. «Sono stato con loro fino alla fine dando a tutti benedizione e preghiera, ho coinvolto medici e infermieri, ho fatto da ponte con i familiari, li ho coinvolti per telefono, li ho benedetti. Ma non è stato facile. Vedi tutti quei malati soffrire così tanto, la maggior parte intubati, mentre si lamentano che gli manca l’aria». Eppure don Luca non si è mai tirato indietro, con il suo stile. «In quei momenti devi imparare a stare zitto, a pregare e soffrire con loro, in silenzio». Ma non è facile quando ti ritrovi in rianimazione con 60 persone tra la vita e la morte. Sapendo che alla fine qualcuno non ce la farà. «È dura, ma ci diamo sostegno, stando tutti insieme, medici e infermieri, nei momenti di dialogo; abbiamo creato un rapporto grande, di fraternità».
Anche don Paolo Mulas, cappellano dell’Azienda ospedaliera universitaria di Sassari,
non smette di stare accanto ai malati di Covid. Indossa la bardatura, la mascherina e via, tra i letti, a raccogliere sfoghi e domande. «La nostra presenza è un segno di quel prendersi cura, di quella vicinanza a coloro che si trovano ad affrontare malattia e morte, soli anche nel fine vita – ricorda –. Cerchiamo di sconfiggere innanzitutto la paura del soffrire e del morire». Perché ormai chi si ammala presagisce le conseguenze della malattia, soprattutto se si trova intubato, e osserva tutto con lo sguardo disorientato, in cerca di conforto.
«Ora c’è maggiore consapevolezza, c’è la paura della morte, della sofferenza, della solitudine, e poi del dolore». Come quello che si prova a vedere le stanze affollate di malati di qualsiasi età, immobili. «In qualche modo cerchiamo di preparare anche le famiglie. Mi sento con loro sia al momento del ricovero che quando poi qualcuno di loro muore. Provo a fargli capire che non erano da soli, che non hanno sofferto. Ma c’è lo strazio di non aver dato un’ultima carezza. Per questo, la nostra non è solo un’opera di misericordia spirituale ma un gesto che facciamo a nome della famiglia. È una morte in solitudine, certo, ma non senza speranza. Molti ricevono la Comunione, hanno un accompagnamento spirituale».
«È un’esperienza dura, impegnativa – ammette don Marco Galante, cappellano dell’Ospedale di Schiavonia,
a Monselice in provincia di Padova, dove è morto il primo paziente Covid in Italia il 21 febbraio –. A volte subentra anche un senso di impotenza, come quando un paziente ti chiede un po’ d’aria e non sai come aiutarlo. Un bicchiere d’acqua sai dove prenderlo, ma se gli manca l’aria e attendono di essere intubati?». E poi c’è il dolore delle famiglie. Che per tutto il tempo non trovano pace. «La distanza dalle persone care, che non riescono nemmeno a salutare prima di morire, è il peso più grande. Ho cercato di stargli vicino, di portare consolazione».
«Anche nell’ordinarietà ci si è sempre presi cura degli inguaribili. Con lo sguardo nascosto dalle maschere di ossigeno e dalle pompe di infusione dei farmaci che sbucano da ogni parte, ci chiedono di essere riconosciuti nella loro dignità di persone, nella condizione umana – dice don Isidoro Mercuri Giovinazzo, cappellano dell’Azienda ospedaliera della Valle d’Aosta, Ospedale Beauregard e Parini, e direttore dell’Ufficio di Pastorale della salute della diocesi di Aosta –. Ogni giorno impariamo che accompagnare alla morte terrena significa accompagnare alla beatitudine un’anima che si apre a Dio». Per le famiglie dei malati di Covid sapere che i propri cari erano accompagnati e seguiti da un sacerdote è sempre una grande consolazione.
«I parenti hanno vissuto esperienze difficili, traumatiche – rimarca padre Angelo Gatto, cappellano dell’Ospedale di Terni –
ma sapere che c’era qualcuno che prega per loro e che sta accanto ai propri cari per portare una carezza e un sorriso gli dà sollievo, sanno che c’è chi fa da portavoce del loro amore, dell’affetto che invece non possono più manifestare da vicino».
«Ormai si sono dovuti richiudere i reparti, i parenti non possono entrare, i pazienti Covid vivono di nuovo nella solitudine – racconta don Nunzio Currao, assistente pastorale del personale del Policlinico Gemelli di Roma –. Per questo si cerca di potenziare la presenza del personale medico infermieristico, o più in generale degli operatori sanitari, perché stiano accanto ai malati». Lo fanno, senza risparmiarsi. Ma può capitare che di fronte a un giovane morto, magari coetaneo dello specializzando che l’ha in cura, lo sconforto prenda il sopravvento. Il dolore lascia tutti attoniti. «Allora cerco di confortarli – spiega Currao –, preghiamo insieme. Ho con loro una presenza continua, quotidiana, fatta di silenzio, di sguardi. Tutti alla fine trovano questa modalità di grande supporto per assistere i malati». Fino alla fine.
(Avvenire)