27 Dicembre, 2024
spot_imgspot_img

Migranti. Lesbo, l’inferno degli sfollati di Moria. Dove una doccia è un miraggio

Nell’isola greca il coronavirus è solo uno dei tanti problemi di questa gente rimasta senza terra né casa, fuggita da guerre e terrorismi

Doccia, chi ha parlato di doccia? La notizia della distribuzione, tenda per tenda, di ticket per accedere al servizio-docce è circolata veloce tra i 7.700 sfollati di Moria rimasti sull’isola di Lesbo, ora alloggiati nel campo temporaneo di Kara Tepe, tirato su in fretta (e male) dopo i roghi dell’8, 9 e 10 settembre.
Da allora, nessuno ha più fatto una doccia vera, almeno non dentro il campo che ne è sprovvisto. Malgrado il coronavirus circoli anche lì (in quarantena ora ci sono 33 persone, di cui 27 positive al Covid-19) non c’è allacciamento alla rete idrica comunale, cioè niente acqua corrente.

Foto Morteza H.

Fino ad ora le persone si sono lavate in mare, con l’acqua salata. O hanno dovuto contare sulla distribuzione di bottiglie e sui pochi rubinetti lava-mani dell’Acnur, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, collegati a sacche d’acqua per il rifornimento.

Per questo la novità dei ticket-doccia è parsa subito rilevante: «Però non capisco: dicono che ognuno deve portarsi la propria acqua», riferisce via Whatsapp Morteza H., un ragazzo afghano sempre ben informato che vive nel campo. Qualche ora dopo, con le istruzioni multilingua fra le mani, fornisce tutti i dettagli: occorre portarsi «la propria acqua e il proprio secchio» perché viene offerto solo un posto appartato in cui lavarsi, lontano da occhi indiscreti.

Il volantino spiega le regole per fare una doccia. La prima: portarsi il secchio e l’acqua – Foto Morteza H.

«Ai rubinetti lava-mani la fila è lunghissima e le toilette sono chimiche, di plastica. Quindi quando si va in bagno, ci si porta una bottiglia anche lì», racconta Morteza H: «L’acqua del mare per lavarsi è fredda, questo non va bene per i bambini». Soprattutto non va bene per suo figlio che ha appena quattro settimane. È nato nell’ospedale di Mitilene, il capoluogo dell’isola, dopo 8 giorni che lui e la moglie (e altri 12mila sfollati di Moria) erano in strada, fuori dal vecchio campo incenerito. «Ci hanno detto che dovremmo fargli il bagnetto ogni due giorni. Non è facile: mettiamo a scaldare bottiglie al sole e quando sono tiepide lo laviamo. Inizia a fare freddo, così di notte mettiamo i nostri sacchi a pelo attorno a lui». Mamma e bambino sono entrati nella nuova tenda di Kara Tepe a pochi giorni dalla nascita, malgrado lei avesse subito un intervento chirurgico durante il parto. Anche per lei l’acqua del mare non è indicata.

Contro il virus sono state distribuite 48.500 mascherine dalla cooperazione svizzera, ma è tutto il resto a mancare: dopo mesi passati nel malsano campo di Moria, nessuno si sarebbe aspettato di vivere in condizioni ancora peggiori. Delle 900 tende allestite, al momento solo 300 hanno teli d’isolamento e 376 hanno pallet per terra. Nelle altre si è a contatto con il terreno (e con resti di munizioni di questo che era un poligono militare, tanto che c’è chi ha denunciato il rischio di intossicazione da piombo).

Quando il 13 ottobre sono arrivate le prime piogge, l’acqua ha inondato diverse tende, «come ci fosse il mare dentro» dice Morteza. Intanto, come accadeva a Moria, si fa la fila per tutto, e il distanziamento sociale pare l’ultimo dei problemi. Per il primo mese il cibo è stato distribuito solo una volta al giorno, con migliaia di persone in coda. Ora si è aggiunta una distribuzione mattutina ma è sempre più difficile fare approvvigionamento all’esterno: di domenica il campo è sigillato, non esce nessuno, e negli altri giorni si resta in fila ai cancelli, con quote massime per le uscite.

Foto Morteza H.

Intanto, secondo il meteo, su Kara Tepe si attendono nuovi temporali, una beffa per chi, senza potersi fare una doccia, deve mettersi in coda per lavarsi le mani e intanto vede fiumi d’acqua piombare dentro la propria tenda.

(Avvenire)

Ultimi articoli