Quando si parla di disoccupazione ci si riferisce quasi sempre se non esclusivamente alla popolazione giovanile, ai giovani in cerca di prima occupazione e ai giovani precari (sempre più numerosi, ovviamente) in cerca di una occupazione stabile.
Ma nessuno parla mai delle persone adulte senza lavoro o di quelle che l’hanno perso, sempre più numerose, gente che va dai 45 ai 60 anni. E sono proprio queste che vivono la condizione più drammatica data dalla mancanza del lavoro. Provate a ricollocarvi, a “riciclarvi”, a reinventarvi una vita a cinquant’anni o anche più, e vedrete. A meno di non avere santi in paradiso si rischia molto concretamente di ritrovarsi in una condizione di disperazione, letteralmente sull’orlo del baratro. Non è un caso che è per lo più all’interno di questa fascia che si registra la gran parte dei suicidi per perdita del posto di lavoro, per impossibilità a trovarlo o per il fallimento della propria azienda. Ricordo altresì – particolare che non può sfuggirci e che non può essere casuale – che pressochè la totalità di coloro che si tolgono la vita per la perdita del lavoro sono uomini.
Si parla sempre di flessibilità, di versatilità, di superare la mentalità del posto fisso che ci si porta dietro per tutta la vita, di diventare “imprenditori di noi stessi”, di abbracciare le sorti magnifiche e progressive del libero mercato e delle opportunità che questo garantirebbe. Ma è solo un modo per camuffare in realtà il concetto di precarietà. E’ il solito coperchio ideologico che serve a manipolare la realtà e a ingenerare falsa coscienza.
Nulla da dire, personalmente, sulla possibilità di cambiare lavoro nella vita, anche perché è quello che ho fatto, avendone avuto le possibilità, che però non tutti hanno. Si invita la gente a cambiare atteggiamento, ad entrare nell’ottica di poter cambiare lavoro anche a cinquant’anni, cosa affatto sbagliata in linea teorica, purchè ce ne siano le possibilità reali e si mettano le persone nella condizione di poterlo fare, altrimenti, come ripeto, è solo un modo furbo per fargli accettare la loro condizione di precarietà. Sappiamo perfettamente che le aziende preferiscono assumere personale giovane per tante ragioni diverse, anche e soprattutto per la possibilità di sfruttarlo di più e meglio rispetto ad un lavoratore più anziano, con molta più esperienza, con un curriculum più ricco e spesso più qualificato, e in linea teorica meno “flessibile” rispetto ad uno più giovane (anche sul piano salariale). Oppure, dall’altra, abbiamo il problema opposto: il lavoratore più anziano viene considerato appunto tale, meno disposto a sacrificarsi, meno qualificato rispetto ad un giovane (soprattutto per ciò che riguarda le nuove tecnologie) e quindi di fatto come una zavorra.
La massa dei lavoratori di una certa età, spesso anche molto qualificati, che perde il lavoro, è oggi enorme. E non è supportata da nessuno. Ancora una volta siamo di fronte alla gigantesca ipocrisia di un sistema che da una parte sbandiera le summenzionate sorti progressive e magnifiche della “mano invisibile del mercato” e della necessità di adeguarvisi da parte di tutti, e dall’altra liquida la gente come calzini vecchi da buttare via quando non più necessari.
Tutto ciò viene coperto con la solita retorica sui giovani e le donne, come se fossero delle categorie sociali, pur sapendo perfettamente che così non è perché ci sono giovani e donne ricchi/e e benestanti e giovani e donne poveri/e e non benestanti, e lo stesso vale naturalmente anche per gli uomini.
Naturalmente, lo scopo di questo articolo non è certo quello di alimentare uno scontro generazionale. Tutt’altro. Questo lo hanno fatto tanti cantori ideologici del sistema in tutti questi anni quando hanno accusato gli anziani (e i pensionati) di essere i responsabili della condizione di precarietà dei giovani. Uno dei tanti depistaggi ideologici a cui siamo abituati.
Quello che voglio dire è che se veramente si volesse essere coerenti con il postulato ideologico di cui sopra, bisognerebbe allora mettere le persone, in particolare quelle non più giovani, nella condizione reale di poter cambiare occupazione o di poterla ritrovare, anche in età avanzata. Anzi, personalmente ritengo che sia molto positivo ai fini della crescita complessiva di una persona, sviluppare la sua versatilità, la sua creatività e la sua attitudine al cambiamento. Ci sono milioni di lavoratori e lavoratrici che fanno un mestiere che non gli piace affatto e che sono obbligate a fare per tutta la vita. Perché non metterle nella condizione di poter cambiare, perché non incentivarle concretamente a cambiare, laddove lo volessero, con corsi di formazione, studio, aumentando le ore previste per la loro formazione ecc. ? Sono convinto che in tal modo si libererebbero tante energie e sarebbe un bene per tutta la società nel suo complesso.
Ma allo stato delle cose, tutto questo è solo chiacchiera. Per fare questo sarebbe necessaria una rivoluzione culturale e nello stesso tempo, ovviamente, anche nel modo di organizzare il lavoro e quindi l’economia. Bisognerebbe ad esempio che lo Stato (con la S maiuscola, se fosse tale…) creasse dei percorsi di reinserimento ad hoc per persone non più giovani che hanno perso il lavoro (nulla di più normale di questi tempi…) oppure, perché no, per persone che ad un certo momento della loro vita avvertono l’esigenza o il desiderio legittimo di cambiare lavoro, sulla base delle loro competenze e della loro esperienza professionale e favorisse il loro reinserimento, sia nel comparto pubblico che in quello privato, eventualmente anche formandole e qualificandole ulteriormente. Ma non si fa nulla di tutto questo.
E allora che per lo meno la si smettesse con la retorica. Questa non è la società della versatilità, della flessibilità e delle opportunità, ma della precarietà. Dopo decenni di chiacchiere e di slogan siamo tornati alla convinzione e alla consapevolezza che se hai la fortuna di trovare un posto di lavoro a tempo indeterminato, qualsiasi esso sia, hai toccato il cielo con un dito, fai un bel pellegrinaggio alla Madonna del Divino Amore per ringraziarla e te lo tieni stretto per tutta la vita. Per lo meno fino a quando non ti licenziano…
(L’interferenza, Fabrizio Marchi)