Secondo l’indagine presentata stamane oltre 5 milioni di lavoratori continueranno a utilizzare questa modalità anche quando l’emergenza sarà stata archiviata
Oltre sei milioni e mezzo di italiani, la quasi totalità delle grandi imprese ma anche il 58 per cento delle Pmi e il 94 per cento delle pubbliche amministrazioni in smart working. Nella fase più acuta dell’emergenza circa un terzo dei lavoratori dipendenti italiani è passato al lavoro agile, oltre dieci volte più dei 570mila censiti nel 2019. Sono i dati dell’ultima edizione dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, presentati stamane durante il convegno online “Smart Working il futuro del lavoro oltre l’emergenza”. Perché il nodo della questione è proprio questo: dei 6,58 milioni attivi da remoto durante il lockdown, solo una parte minore tornerà a lavorare come prima. Al termine dell’emergenza l’Osservatorio del Polimi stima che i lavoratori agili, che lavoreranno almeno in parte da remoto, saranno complessivamente 5,35 milioni, di cui 1,72 milioni nelle grandi imprese, 920mila nelle Pmi, 1,23 milioni nelle microimprese e 1,48 milioni nelle Pubbliche Amministrazioni.
Una conferma indiretta viene proprio dalle norme più recenti della Pubblica Amministrazione, che stabiliscono che da gennaio il 60 per cento dei dipendenti dei setttori dove lo smart working è possibile adottino questa modalità, attraverso la redazione di piani periodici da parte dei respnsabili degli uffici. Per adattarsi a questa “nuova normalità” del lavoro il 70% delle grandi imprese aumenterà le giornate di lavoro da remoto, portandole in media da uno a 2,7 giorni alla settimana, una su due modificherà gli spazi fisici.
E del resto anche a settembre, quando erano cominciati i cosiddetti “rientri” e c’era l’illusione di essersi lasciati alle spalle il periodo peggiore dell’epidemia, rimanevano comunque in smart working 5,06 milioni di dipendenti.
“L’emergenza Covid19 ha accelerato una trasformazione del modello di organizzazione del lavoro che in tempi normali avrebbe richiesto anni, dimostrando che lo smart working può riguardare una platea potenzialmente molto ampia di lavoratori, a patto di digitalizzare i processi e dotare il personale di strumenti e competenze adeguate – afferma Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio -. Ora è necessario ripensare il lavoro per non disperdere l’esperienza di questi mesi e per passare al vero e proprio smart working, che deve prevedere maggiore flessibilità e autonomia nella scelta di luogo e orario di lavoro, elementi fondamentali a spingere una maggiore responsabilizzazione sui risultati. Bisogna mettere al centro le persone con le loro esigenze, i loro talenti e singolarità, strutturando piani di formazione, coinvolgimento e welfare che aiutino le persone ad esprimere al meglio il proprio potenziale”.
Ma intanto la pandemia ha costretto aziende e pubbliche amministrazioni a “scoprire” come un modo diverso di lavorare sia possibile anche per figure professionali prima ritenute incompatibili,
come gli insegnanti, anche utilizzando una strumentazione di fortuna (i propri Pc!). E un ricorso così massiccio e improvviso non ha permesso una organizzazione ottimale, sia delle aziende che delle vite dei lavoratori. Nonostante le difficoltà, questo smart working atipico ha contribuito a migliorare le competenze digitali dei dipendenti (per il 71% delle grandi imprese e il 53% delle PA), a ripensare i processi aziendali (59% e 42%) e ad abbattere barriere e pregiudizi sul lavoro agile (65% delle grandi imprese), segnando una svolta irreversibile nell’organizzazione del lavoro.
Nel complesso, si è fatto molto telelavoro e poco smart working, secondo le modalità di lavoro di risultato e di organizzazione autonoma del lavoro che, anche secondo la legge vigente, dovrebbero caratterizzarlo. E le conseguenze sono emerse anche in termini negativi: il 29% dei lavoratori ha incontrato difficoltà a separare il tempo del lavoro e quello privato e a mantenere un equilibrio fra i due aspetti (28%), oltre a sperimentare una sensazione di isolamento nei confronti dell’organizzazione nel suo insieme (29%). Tra gli aspetti positivi, nelle grandi imprese sono migliorate le competenze digitali dei dipendenti (71%), sono stati accantonati pregiudizi sul lavoro agile (65%), ripensati i processi aziendali (59%) ed è aumentata la consapevolezza sulla capacità di resilienza della propria organizzazione (60%). Nelle PA il beneficio più evidente è l’opportunità di sperimentare nuovi strumenti digitali (56%), seguita dal miglioramento delle competenze digitali dei lavoratori (53%), e dal ripensamento dei processi aziendali (42%).
Analizzando l’impatto sull’insieme dei lavoratori, la grande maggioranza degli smart worker rileva un effetto positivo del lavoro da remoto sulle performance dell’organizzazione: il 73% ritiene buona o ottima la propria concentrazione nelle attività lavorative, per il 76% è aumentata l’efficacia, per il 72% l’efficienza e per il 65% ha portato innovazione nel lavoro.
(La Repubblica)