Tra le cancellerie internazionali che non si sono ancora congratulate con Joe Biden vi sono grandi e medie potenze come Cina, Russia, Brasile e Turchia.
La scusa ufficiale è che Trump non ha ancora ammesso la sconfitta e ha avviato un’offensiva legale.
Una simile prudenza da parte di interlocutori così importanti cela però motivazioni molto più profonde
A due giorni dalla proclamazione di Joe Biden come presidente eletto degli Stati Uniti, è sempre più assordante il silenzio delle cancellerie internazionali che non si sono ancora congratulate con l’ex vice di Barack Obama. Sono assenze pesanti: si parla di grandi e medie potenze che con l’amministrazione Trump hanno avuto un rapporto complicato, dalla Cina alla Russia, dalla Turchia al Messico. C’è chi attende forse da ‘The Donald’ un’ammissione di sconfitta che ancora non arriva, e c’è chi ritiene che l’esito del voto possa ancora essere ribaltato dall’offensiva legale del presidente uscente, secondo il quale i democratici hanno strappato la vittoria a suon di brogli.
I rancori di ‘Amlo’
Lo dice a chiare lettere il presidente messicano Andres Manuel Lopez Obrador, un populista di sinistra che, dopo una partenza turbolenta, complicata dalla retorica incendiaria di Trump nei confronti del Paese centroamericano, reo di esportare “stupratori” e di spingere le aziende Usa alla delocalizzazione con la sua manodopera a basso costo, era riuscito a stabilire una relazione tutto sommato funzionale con l’ingombrante vicino dopo aver acconsentito, sotto la minaccia di dazi, a dispiegare la guardia nazionale per impedire ai migranti di varcare la frontiera. “Non vogliamo essere imprudenti o agire in modo frettoloso”, ha dichiarato in una conferenza stampa.
Il presidente messicano Lopez Obrador
I motivi della cautela sono in realtà personali. ‘Amlo’ cova un risentimento che risale alle elezioni del 2006, quando fu battuto per un soffio da Felipe Calderon e George W. Bush si affrettò a congratularsi con il vincitore designato senza attendere l’esito dei ricorsi inoltrati da Obrador. “Fu imprudente”, ha sottolineato, “non vogliamo fare lo stesso”. Abbastanza da suscitare la reazione irata del deputato democratico Joaquin Castro, leader del caucus ispanico nella Camera dei Rappresentanti Usa, che ha parlato di “uno sconcertante errore diplomatico” dal momento che Biden vorrebbe “inaugurare una nuova era di amicizia e cooperazione con il Messico”.
Il ‘Trump dei tropici’ perde il suo mentore
Se ‘Amlo’ ha almeno spiegato le ragioni della sua scelta, è totale il silenzio del presidente brasiliano Jair Bolsonaro, presumibilmente impegnato a metabolizzare quella che è per lui una cocente delusione. il leader ultraconservatore non si presenta proprio benissimo, dato che, prima delle elezioni, aveva espresso in modo esplicito il suo auspicio di un secondo mandato per il tycoon. Tra i due le analogie si sono sprecate, tanto da far guadagnare all’ex militare l’appellativo di “Trump dei tropici”: dal totale disprezzo per il politicamente corretto alla contestazione degli allarmi sul riscaldamento globale, dal sodalizio con la destra religiosa, evangelica e filo-israeliana, alla contrarietà a chiusure radicali per arginare la pandemia di coronavirus. Una strategia, quest’ultima, che è costata l’elezione a Trump. Ora Bolsonaro teme di incontrare lo stesso destino: il Brasile, come gli Usa, è una delle nazioni più colpite dal Covid in termini di contagi e decessi.
Bolsonaro, con l’arrivo di Biden alla Casa Bianca, perde una sponda importante in un continente che – con il ritorno dei peronisti in Argentina, l’insediamento di un delfino di Evo Morales in Bolivia e il fallimento dei tentativi di Juan Guaidò di rovesciare Nicolas Maduro in Venezuela – sta svoltando un’altra volta a sinistra. Al netto dei proclami sulla lotta alla deforestazione in Amazzonia, non proprio tra le priorità di Bolsonaro, è però difficile che Biden metta a repentaglio la relazione con il gigante sudamericano. Che ci sia Bolsonaro o meno, agli Usa interessa soprattutto che il Brasile non si avvicini alla Cina, a partire dal dossier del 5G.
Xi Jinping
La sfinge cinese
Già, la Cina. L’atteggiamento di Pechino rimane interlocutorio. Il portavoce del ministero degli Esteri, Wang Wenbin, si è limitato ad affermare che, una volta chiarite le controversie legali sul voto, il Dragone agirà “in conformita’ con le pratiche internazionali”. La Cina, ha ricordato Wenbin, ha sempre sostenuto la necessità di “rafforzare la comunicazione e il dialogo” con gli Stati Uniti, “gestire le divergenze sulla base del rispetto reciproco, espandere la cooperazione sulla base del vantaggio reciproco e promuovere lo sviluppo sano e stabile delle relazioni sino-statunitensi”.
Più che attendere un discorso di concessione di Trump, i cinesi, abituati a pesare le parole con molta attenzione, aspettano forse qualche indizio in più sulle intenzioni di Biden. Nel suo primo discorso alla nazione da presidente eletto di riferimenti alla politica estera ce ne sono stati pochini. Quasi tutti gli analisti ritengono però che Biden, pur con toni più pacati, continuerà la politica di contrasto alla crescente influenza cinese nel mondo.
I dossier commerciali sono ancora aperti e qualsiasi approccio diplomatico con la Cina dovrà partire da lì. Nel frattempo, non si può non registrare un certo compiacimento nella maniera in cui le testate vicine al Partito, come il ‘Global Times’, hanno stigmatizzato lo scenario conflittuale del post voto in Usa. Il messaggio è che le elezioni in America sono l’ennesima dimostrazione di come il sistema democratico davvero non funzioni. Da questo punto di vista, dare a intendere che non si è ancora capito chi abbia vinto è di sicuro funzionale alla propaganda.
Festa finita per il Sultano?
All’appello mancano anche le congratulazioni di Recep Tayyp Erdogan, presidente, ormai quasi autocrate, della Turchia. Per chi ama sottolineare quanto sia stato nocivo il disimpegno in politica estera del presidente Usa uscente, non c’è argomento più valido dell’incapacità della Casa Bianca di tenere in riga Ankara, la cui politica neo-ottomana è sempre più in contrasto con il ruolo di membro della Nato. Con Trump nello Studio Ovale, Erdogan ha spadroneggiato senza che nessuno gli si opponesse, con la sola Russia a cercare di mediare nei momenti più difficili. La baldanza del presidente turco è comprensibile: ha tentato gli azzardi più arditi e gli sono andati bene tutti: dall’offensiva nel Nord della Siria contro i curdi, schierati da Washington contro l’Isis e poi abbandonati a loro stessi, alle provocazioni contro la Grecia nel Mediterraneo.
Erdogan e Trump
Il vero schiaffo per Washington è stato pero’ l’acquisto, nel luglio 2019, del sistema di difesa antimissilistico russo S-400. Una mossa inaudita perché Ankara non è solo uno Stato membro della Nato ma anche un importante cliente del programma F-35, dal quale gli Usa si sono poi affrettati a escludere la Turchia per evitare che i loro caccia multiruolo di ultima generazione rischiassero di diventare tracciabili per i russi.
Si percepisce quindi una sorta di sprezzo nel silenzio del Sultano, che pare quasi suggerire che, chiunque ci sia alla Casa Bianca, lui continuerà a far come vuole. L’elemento di novità è che l’Europa inizia a non poterne più, a partire dal presidente francese, Emmanuel Macron. C’è da scommettere che, nel suo primo colloquio con Biden, il capo dell’Eliseo gli chiederà un maggiore impegno nel contenimento di Erdogan.
La cautela del Cremlino
Con due attori così esuberanti in campo, come la Cina e la Turchia, il Cremlino può forse sperare di smettere di essere la preoccupazione principale dell’Occidente. Anche Vladimir Putin non si è ancora espresso e le ragioni della sua prudenza sono facili da intuire. I precedenti, sulla carta, non sono incoraggianti. Gli Usa avevano inaugurato la nuova Guerra Fredda con la Russia sotto l’amministrazione Obama, di cui Biden era vicepresidente. Quando John Kerry sostituì Hillary Clinton alla segreteria di Stato, un dialogo costante, sia pur faticoso, tuttavia era stato costruito. Con buona pace di chi riteneva Trump un pupazzo di Putin, il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov, negli ultimi anni si è invece lamentato più volte dello Stato dei rapporti con la Casa Bianca, scesi ai minimi dagli anni ’80.
“Crediamo sia corretto attendere i risultati ufficiali delle elezioni”, ha detto il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ribadendo la volontà di costruire un “dialogo”. Leggendo le testate russe, il dibattito appare molto vivace, tra chi teme una politica antirussa ancora più decisa e chi scommette su una distensione come ai tempi di George W. Bush. Quel che conta, per la Russia, è che il dialogo ci sia: ci sono dossier che Putin sa bene di non poter più gestire da solo.
(Agi)