Coronavirus, a 78 anni viene lasciato per 11 giorni su una barella al pronto soccorso del San Camillo in mezzo a 63 positivi
L’anziano uomo non è neanche il record man di “attesa sulla lettiga”. Lunedì è stato dimesso un signore che aveva stazionato per 12 giorni
Contagiato dal coronavirus, a settantotto anni ha trascorso undici giorni in barella, prima che si liberasse un letto in reparto. Teatro dell’attesa è stato il Pronto soccorso del San Camillo.
L’anziano, due giorni fa, era attorniato da un centinaio di pazienti, 97 per la precisione, dei quali 63 positivi al Covid. Il fatto è tanto più grave in quanto – riferiscono a Repubblica fonti qualificate dell’ospedale – il paziente non è il solo ad aver ricevuto quel trattamento e non detiene neppure il record della permanenza lì: un altro, un cinquantottenne arrivato il 30 ottobre scorso, un giorno prima di lui, è rimasto sdraiato dodici giorni su una lettiga ospedaliera. È stato dimesso ieri mentre intorno a lui erano 104 i malati in barella e, tra questi, oltre 70 positivi al Covid.
Sono storie di ordinari disservizi, alle quali – tra le smentite pubbliche dell’assessore regionale alla Sanità e una sorta di conformismo accomodante di qualche sindacato aziendale dei medici – nell’ospedale di Monteverde ci si sta quasi abituando, impegnati come si è in una rincorsa ai tempi sempre più lunghi trascorsi dai pazienti su barelle anguste con la paura nell’animo e lo sguardo sperduto su quella sala che pullula di angoscia e dolore.
Già gli ambienti. In quella trincea, dove ogni giorno si combatte con le urgenze e le emergenze, complice l’ormai endemica carenza di personale, si chiudono due stanze nella cosiddetta “Emergenza due” costringendo tutti i malati nell’area della “Emergenza uno” con distanze tra una lettiga e l’altra ben al di sotto della soglia minima di sicurezza.
A ranghi ridotti, medici, infermieri, ausiliari affrontano la marea montante degli accessi in Pronto soccorso. E quanto lì si consuma, tra sovraccarichi di lavoro e disorganizzazione, sembra essere vissuto dai camici bianchi con rassegnata accettazione. Non riescono più neanche a indignarsi. La scarsità delle forze in campo produce carichi di lavoro sovrumani. Come braccianti alle dipendenze di kulaki prima della rivoluzione sovietica, ognuno si sobbarca turni di lavoro quotidiano anche di dodici ore.
E per fronteggiare l’onda d’urto degli assalti alla prima linea ospedaliera, i manager che presiedono all’organizzazione di quella front line hanno pensato di ridurre gli spazi: via due stanze dell’Emergenza uno, adiacenti alla cosiddetta Area critica. Ambienti utili chiusi a chiave. Una quarantina di metri quadrati in meno. E le distanze tra un malato e l’altro si riducono sempre più, anche al di sotto del livello minimo di difesa. Calano in maniera direttamente proporzionale all’allungarsi dei tempi di attesa in barella. Almeno, però, il personale non si disperde qua e là. Resta concentrato in quel concentrato di perniciosità da Sars Cov2 che aleggia nella sala rimasta, l’Emergenza uno dove, ieri pomeriggio le presenze di degenti hanno toccato unauota mai registrata prima. E la curva dei contagi non accenna a scendere.
(La Repubblica)