La vittoria del candidato dem non sarà ufficiale fino al 14 del mese prossimo quando voterà il Collegio elettorale ma Biden esclude conseguenze in vista del suo insediamento.
E si appella a Trump: “Sono ansioso di parlare con te”. Intanto l’inquilino della Casa Bianca non demorde
“Nulla fermerà il trasferimento dei poteri”, “la transizione è già iniziata, e il fatto che Donald Trump si rifiuti di riconoscere la sconfitta è solo “un imbarazzo”. Joe Biden ostenta sicurezza sulla vittoria che gli è stata attribuita dai media ma che non sarà ufficiale fino al 14 del mese prossimo (il primo lunedì dopo il secondo mercoledì di dicembre), quando voterà il Collegio elettorale.
Intanto, entro l’8 dicembre, gli Stati dovranno aver risolto tutte le controversie per certificare il verdetto dell’urna e stilare la lista dei Grandi Elettori. A quel punto ci sarà solo l’incognita degli infedeli, ovvero dei Grandi Elettori che decidono di ignorare il voto popolare nello Stato di appartenenza. Ben 5 nel 2016 tradirono Hillary Clinton.
Intanto Trump non molla la presa, spalleggiato dai repubblicani
L’inquilino della Casa Bianca, che ha presentato decine di ricorsi in almeno cinque Stati denunciando frodi e irregolarità, non demorde e continua a dichiarare di aver vinto, spalleggiato dai repubblicani, dal leader al Senato Mitch McConnell al fedelissimo Lindsey Graham, dal Guardasigilli William Barr al segretario di StatoMike Pompeo che parla di una “transizione” avviata verso il secondo mandato dell’amministrazione Trump.
“Penso che l’intero partito repubblicano, con qualche eccezione degna di nota, sia stato messo nelle condizioni di vaga intimidazione da parte del presidente in carica”, è l’affondo di Biden che esclude conseguenze in vista del suo insediamento il prossimo 20 gennaio. Eppure alcune agenzie federali si rifiutano di collaborare con Biden, aspettando che la sua vittoria venga riconosciuta dal General Service Administration (GSA). Tra i ricorsi pendenti presentati dal team di Trump, c’è quello in Pennsylvania dove si contesta, in primo luogo, la decisione della Corte Suprema statale di far conteggiare anche le schede arrivate per posta fino a 3 giorni dopo l’Election Day del 3 novembre.
Altre quattro istanze legali sono state respinte, ma ce ne sono diverse in sospeso e nuove in arrivo. E se per McConnell, Trump ha diritto “al 100%” di verificare eventuali irregolarità, Barr ha autorizzato il dipartimento di Giustizia ad indagare.
L’appello di Biden a Trump: “Sono ansioso di parlare con te”
“A questo punto il fatto che non abbiano intenzione di riconoscere la nostra vittoria non comporta grandi conseguenze sulla pianificazione di quello che dobbiamo fare da qui al 20 gennaio”, spiega Biden ma auspicando di parlare con McConnell e con Trump al più presto.”Signor presidente, sono ansioso di parlare con te”, è l’appello a distanza inviato al comandante in capo.
Le speranze dei dem di conquistare il controllo del Senato intanto si affievoliscono, con il repubblicano Thom Tills che si assicura la rielezione nella North Carolina. Manca all’appello solo il verdetto dei due ballottaggi per il Senato in calendario in Georgia il prossimo 5 gennaio. Alla Camera, il partito dell’Asinello raggiunge la soglia minima dei 218 deputati per mantenere la maggioranza ma perde sette seggi (secondo i calcoli del New York Times).
Biden ai leader mondiali: “L’America è tornata in gioco”
Se il presidente cinese Xi Jinping e quello russo Vladimir Putin (e non sono gli unici) giudicano premature le congratulazioni a Biden, i leader europei (compresi il presidente francese Emmanuel Macron, la cancelliera tedesca Angela Merkel e il premier britannico Boris Johnson) lo hanno chiamato per complimentarsi. Biden ha assicurato loro che “l’America è tornata in gioco” e che il nazionalismo all’insegna dell’America First è acqua passata.
Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, come recita il proverbio. I dossier aperti tra le due sponde dell’Atlantico sono diversi e tutti molto caldi, come la guerra sui dazi o sulla “web tax”. Ed ora Bruxelles ha aperto un nuovo fronte contro i giganti tecnologici a stelle e strisce. A finire nel mirino dell’antitrust Ue questa volta è Amazon. Se l’autorità guidata della vicepresidente della Commissione, Margrethe Vestager, dovesse decidere di affondare il colpo, la società guidata da Jeff Bezos rischierebbe una multa fino a 28 miliardi di dollari. Ed solo l’ultimo contenzioso tra il Vecchio Continente e la Silicon Valley, a 10 anni dalla prima indagine che ha indotto l’Ue a puntare i fari sugli affari europei del big tech.
L’incognita del comparto tecnologico
Durante la campagna elettorale Biden ha parlato poco delle società tecnologiche. Salvo rilasciare una eloquente intervista al board editoriale del New York Times uscita nel gennaio del 2020. Allora disse di voler revocare la Section 230 del Communications Decency Act (quella che garantisce ai social media immunità rispetto ai contenuti postati) e definì gli executive dell’industria tecnologica dei “piccoli serpenti”, “arroganti in modo spropositato”.
Non esattamente parole d’amore, tali da anticipare un idillio paragonabile alla luna di miele di Barack Obama con la Silicon Valley. Eppure le società tecnologiche sono state tra i 10 principali donatori della sua campagna ed insider del settore hanno gli hanno fatto da adviser, come Cynthia Hogan di Apple. Biden ha lanciato la sua raccolta fondi durante un evento organizzato dal manager di Comcast David Cohennell’aprile del 2019, raccogliendo 25 milioni di dollari dalle società internet, secondo i dati del Center for Responsive Politics. Per non parlare degli ottimi rapporti che con l’industria tecnologica vanta con la vice presidente eletta Kamala Harris, ex procuratore distrettuale di San Francisco.
Le quattro priorità dell’agenda
Domenica mattina, a meno di 24 ore dall’attribuzione della vittoria, Biden ha lanciato il sito per la transizione dove ha messo nero su bianco punti dell’agenda della sua amministrazione. Vengono indicate 4 priorità: il Covid-19, la ripresa economica, l’uguaglianza razziale e il cambiamento climatico. La tecnologia viene solo accennata, ma solo per la necessità di rendere accessibile a tutti la banda larga e non in termini di regolamentazione del big tech.
Lo scorso ottobre, il dipartimento di Giustizia Usa ha fatto causa a Google per violazione delle leggi antitrust. Sebbene gli esperti siano divisi sulla forza del ricorso, concordano sul fatto che non sarà ritirato con Biden alla Casa Bianca. Anzi, potrebbe allargarsi con cause aggiuntive presentate da alcuni Stati, compreso New York.
Il vice direttore della comunicazione della campagna di Biden, Bill Russo, ha twittato a ripetizione contro l’incapacità di Facebook di gestire la disinformazione, “facendo a brandelli il tessuto della democrazia” e i democratici la scorsa estate hanno pubblicato un rapporto di 449 pagine sulle pratiche monopolistiche di Apple, Amazon, Facebook e Google. Ma, soprattutto se i repubblicani dovessero mantenere il controllo del Senato, la Silicon Valley scivolerebbe all’ultimo posto nell’agenda del nuovo presidente democratico che avrebbe già difficoltà a strappare un accordo al Grand Old Party sul piano per fermare la pandemia e sul nuovo pacchetto di stimoli economici.
L’ipotesi più fattibile sembrerebbe quella di un accordo bipartisan per contenere l’accesso da parte del big tech ai dati dagli utenti, la via principale con cui esercitano il loro enorme potere, anche interferendo nelle elezioni, come è emerso con lo scandalo di Cambridge Analytica nel 2016.
Nessuno fermerà la musica della Silicon Valley? Per ora devono accontentarsi della promessa fatta da Biden lo scorso luglio: “Non dovrete preoccuparvi dei miei tweet quando sarò presidente”.
(Agi)