Il piccolo è morto nel naufragio dell’imbarcazione. Le urla della giovane madre hanno commosso l’Italia. Il parroco: noi qui siamo la tua famiglia per sempre. Il sindaco: rabbia e dolore
“Youssef aveva solo 6 mesi”. Parole meste quelle del parroco di Lampedusa, Carmelo la Magra, affidate a Facebook, per il piccolo morto a seguito del naufragio di mercoledì al largo della Libia, in cui sono morte altre cinque persone, due donne e tre uomini. Il corpicino è stato portato sull’isola insieme alla giovane mamma e a una donna incinta. Qui è stato vegliato e qui sarà sepolto, appena concluse le procedure legate all’inchiesta aperta dalla procura di Agrigento.
“Caro Youssef – scrive il sacerdote – nei tuoi sei mesi di vita, niente avesti da bambino, né una culla, né giochi, né serenità o pace. Sei mesi e mai hai potuto essere bambino, come la tua mamma giovanissima e già al colmo del dolore. Noi oggi e sempre, qui, siamo la tua famiglia. Ci vediamo in cielo dove saremo bambini per sempre”.
Il bimbo, soccorso insieme agli altri naufraghi da Open Arms, secondo la ong spagnola è morto a causa dei ritardi nell’intervento delle autorità europee che erano state sollecitate perché si prendessero subito carico dei sopravvissuti. Sei le vittime della tragedia del mare.
Nel post del parroco si nota che la bara è scura, non quelle tipiche bianche riservate ai morti bambini. Una piccola bara è giunta qualche ora dopo.
Il sacerdote rilancia inoltre su Facebook le parole del Forum Lampedusa solidale, in cui si racconta la partecipazione all’ultimo saluto al piccolo Youssef:
“Viviamo in un piccolo paese, meno di 6.000 anime. Ci si conosce tutti. Lampedusani e “forestieri”.
La morte di uno/a di noi viene annunciata dal rintocco delle campane della locale parrocchia e diviene immediatamente lutto per l’intero paese. Improvvisamente, si abbassa il volume della voce e si chiede “Cu murìu?”. E anche se solo per qualche breve istante tutt* sull’isola partecipano al lutto di amici e familiari.
Il corteo funebre si muove a piedi dalla Chiesa al cimitero, un chilometro, non di più. Attraversa una strada solitamente molto trafficata e per circa mezz’ora auto e moto spariscono prendendo vie alternative. Al suo passaggio chiunque si ferma, anche solo per un attimo, si abbassa il cappello, si fa il segno della croce, cerca lo sguardo dei familiari.
I cortei sono più o meno affollati. A volte ci si unisce al corteo non perché si avesse qualche rapporto con chi è morto o con i suoi parenti, ma solo perché il numero dei partecipanti appare scarno.
In questi anni, quando a essere sepolti nel cimitero dell’isola sono stati corpi – spesso senza nome – di uomini e donne morti nel tentativo di raggiungere l’Europa via mare, un gruppo di lampedusani (e forestieri) ha sempre organizzato una piccola cerimonia, laica. Chiunque partecipi (cattolico, protestante, musulmano o ateo che sia) ha le proprie motivazioni individuali, religiose, etiche, personali. Ciò che ci accomuna è la consapevolezza del valore politico di questo rito.
Noi siamo lì in sostituzione dei parenti e degli amici di chi è morto, siamo lì al posto di chi ha titolo a chiedere giustizia per una (l’ennesima) morte assurda. Siamo lì al posto di tutte le persone che sarebbero con noi se potessero. Siamo lì per denunciare la disumanità di leggi e politiche che condannano a morte esseri umani.
Siamo lì, con i nostri corpi per compiere un atto di resistenza civile. Siamo lì. Oggi eravamo lì. Lui aveva solo 6 mesi”.
“Tutto ciò provoca rabbia, dolore e una profonda tristezza”, dice il sindaco Totò Martello. “Di fronte a eventi terribili come questo – aggiunge – l’opinione pubblica si commuove e si indigna, ma a questa reazione non segue un passo conseguente della Comunità europea sulla necessità di garantire la sicurezza nel Mediterraneo e si continua a scaricare sui territori di confine il peso maggiore della prima accoglienza”.
Intanto la procura di Agrigento ha aperto un’inchiesta sul naufragio di mercoledì.
L’inchiesta, affidata al procuratore aggiunto Salvatore Vella e alla sostituta Sara Varazi, fa riferimento all’articolo 12 del testo unico sull’immigrazione, che punisce l’immigrazione clandestina ma riconosce anche il dovere del soccorso in mare. Il fascicolo aperto dalla procura, per ora contro ignoti, è, infatti, per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e per naufragio colposo. Ma, sottolineano i magistrati, “non precludiamo sviluppi”. Si vuole in particolare capire i tempi dei soccorsi, se ci sono stati ritardi e per quali motivi, e se il bimbo poteva essere salvato. Poche, finora, le informazioni raccolte. In particolare gli uomini della Guardia costiera di Lampedusa hanno raccolto la drammatica testimonianza della mamma di Youssef, la giovanissima Hajay che compirà 18 anni il prossimo 18 novembre. Un gran brutto compleanno. Il papà del bimbo è ancora in Libia. Con lei è stata ascoltata anche un’altra donna, evacuata dall’Open Arms perché incinta, mentre il resto dei naufragi attende ancora di essere sbarcato. La procura, che attende dalla Guardia costiera una ricostruzione dei fatti, ha anche acquisito i registri di bordo e delle comunicazioni partite in quelle ora dalla nave della Ong. Sia sul naufragio che sulle condizioni di Youssef. È stata poi disposta l’ispezione cadaverica della piccola salma e il successivo nulla osta al seppellimento nel cimitero di Lampedusa. Mentre la giovanissima mamma chiede: “Quando posso portargli un fiore?”.
E dalla Open Arms arrivano altre immagini che toccano il cuore. Sono quelle di un altro bambino, Bangaly, 6 anni, che racconta il naufragio e chiede “dove è mamma?”. La sua mamma è una delle due donne morte.
(Avvenire)