Dall’inizio della pandemia, il Sol Levante ha contato 119 mila casi di coronavirus e 1.874 decessi, numeri che molte nazioni europee macinano in pochi giorni.
Se la Corea del Sud ha vinto la guerra contro il virus imponendo ai cittadini rigide limitazioni alla libertà personale e avviando una campagna capillare di test, nulla di tutto questo è avvenuto in Giappone.
Come ha fatto Tokyo a passare in un mese dal picco alla fine dell’emergenza?
Lo scorso giugno era esplosa una polemica su una frase del vicepremier nipponico, Taro Aso, che aveva attribuito al superiore “livello” del suo popolo gli eccelenti risultati del Giappone nell’arginamento dell’epidemia di coronavirus. “Ricevo spesso chiamate da altri Paesi nelle quali ci chiedono se abbiamo medicine speciali o cose del genere”, aveva dichiarato Aso durante un’udienza in Commissione Finanze, “dico semplicemente a queste persone che tra i loro Paesi è il nostro c’è una differenza di ‘mindo‘. E questa risposta li ammutoliva ogni volta”. L’utilizzo di questo termine arcaico, dalle connotazioni scioviniste, aveva suscitato forti critiche. Eppure, nel giorno in cui Tokyo comunica dati record sulla crescita del Pil ed esclude un nuovo rinvio delle Olimpiadi, già rimandate al 2021, viene da pensare che Aso non avesse poi tutti i torti.
A oggi il Giappone conta 119 mila casi totali di coronavirus e 1.874 decessi dall’inizio dell’epidemia, numeri che molte delle nazioni europee più colpite macinano in pochi giorni. A rendere questi dati davvero straordinari è inoltre il fatto che ai cittadini del Sol Levante non sia stata imposta alcuna misura coercitiva per limitare la diffusione del contagio. Il confronto è quindi impressionante anche con un’altra nazione asiatica, la Corea del Sud, che è riuscita sì a vincere in fretta la battaglia contro il Covid ma solo grazie a durissime misure di lockdown, a una campagna di test capillare e all’obbligo di installare un’applicazione per il tracciamento dei contatti.
Nulla di tutto questo è avvenuto in Giappone. Alla popolazione è stato semplicemente chiesto di rispettare le norme igienico-sanitarie e i luoghi pubblici a maggior rischio sono stati chiusi con grande anticipo, scuole incluse. E tanto è bastato. Nessuna restrizione che paralizzasse per mesi l’economia di una nazione che per decenni aveva lottato con tassi di crescita bassissimi e oggi segna il maggior incremento del Pil in 40 anni grazie soprattutto all’impennata dei consumi privati. Che vogliono dire ristoranti e tempo libero, ovvero quanto ora è precluso agli europei.
La scommessa di Abe
Eppure in Giappone c’erano tutti i presupposti per una tempesta perfetta: una popolazione tra le più anziane del mondo e una densità abitativa con pochi paragoni. E in effetti a febbraio Tokyo sembrava destinata a diventare uno degli epicentri mondiali della pandemia. Nella capitale nipponica il picco di contagi fu invece pari a 206 in 24 ore il 17 aprile. Il 22 maggio il numero di nuovi casi era già sceso a tre, in una città con quasi 14 milioni di abitanti. Un sospiro di sollievo per il premier Shinzo Abe, che temeva di finire nell’ignominia la sua lunga carriera politica e ha lasciato invece, lo scorso 16 settembre, un Paese tra i pochissimi al mondo a poter cantare vittoria nella guerra al virus.
Nei giorni del picco dell’epidemia Abe era stato criticatissimo per un approccio che era parso tentennante e irresoluto. Lo scorso 7 aprile la dichiarazione dello stato di emergenza a Tokyo, poi allargato all’intera nazione, era stata giudicata troppo tardiva. La consegna a ogni famiglia di due mascherine riutilizzabili aveva suscitato sarcasmo. Concentrarsi su pochi focolai invece di lanciare test su larga scala era sembrato un azzardo. In molti avevano invocato Seul come modello da seguire.
In un discorso alla nazione trasmesso per televisione, Abe fece appello al senso civico del popolo nipponico, richiamando lo spirito di unità dei giorni successivi allo tsunami che causò il disastro nucleare di Fukushima. Il premier chiese ai cittadini di ridurre i contatti umani del 70-80% e domandò alle aziende di far lavorare in remoto quanti più dipendenti possibile e, nei casi in cui il telelavoro fosse inattuabile, di strutturare i turni in modo da ridurre al minimo il numero di persone contemporaneamente in ufficio. In questo modo, affermò Abe, il picco dell’epidemia avrebbe potuto essere raggiunto in due settimane. Peccò per eccesso. Ci vollero appena 10 giorni.
Chiudere subito per riaprire il prima possibile
Parte del successo del modello nipponico sta nell’aver ridotto subito al minimo le possibilità di assembramenti mentre altri Paesi esitavano. Se la popolazione non era stata sottoposta a limitazioni della libertà personale, le scuole erano già state chiuse agli inizi di marzo, altra iniziativa di Abe che fu criticatissima. E già a febbraio, quando il picco era ancora lontano, c’era stata la serrata di musei, teatri, parchi a tema e stadi. Quando, il 10 marzo scorso, in Gran Bretagna 150 mila persone si erano recate a Cheltenham per assistere al celebre torneo di equitazione, in Giappone il campionato di calcio era già stato sospeso tre settimane prima.
Le chiusure precoci spiegano però solo in parte perché già a fine maggio i giapponesi fossero potuti tornare a cenare fuori. Molte delle norme igenico-sanitarie necessarie a limitare i contagi erano già parte del modus vivendi nipponico. Per un giapponese indossare una mascherina era già un’abitudine normale d’inverno, per proteggersi dall’influenza, e in primavera, per combattere le allergie stagionali. L’abitudine di salutarsi chinando il capo invece che stringendosi la mano o abbracciandosi, il togliersi le scarpe all’ingresso delle abitazioni e un’igiene personale rigorosa sono stati altri fattori che hanno contribuito ad abbattere in fretta la curva. Un capitolo a parte meriterebbero le teorie più fantasiose, dai benefici effetti sul sistema immunitario di alimenti tradizionali come il “natto” (fagioli di soia fermentati) al limitato numero di goccioline che si emetterebbero parlando giapponese.
“Non credo che il calo del numero delle infezioni sia dipeso dalle politiche del governo”, spiegò al Guardian il vicedirettore dell’ospedale dell’Università di Tokyo, Ryuji Koike, “credo che in Giappone stia andando bene grazie a fattori che non possono essere misurati, come le abitudini di tutti i giorni e il comportamento dei giapponesi”. Insomma, magari non c’entrava proprio il ‘mindo’ menzionato da Aso ma sicuramente è stata questione di ‘jishuku’, ovvero autodisciplina.
(Agi)